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pochi “valentuomini”, troppe “persone da nulla”

Quella “miserabile teatrocrazia” che ha svuotato i fondamenti della politica

Sergio Belardinelli

La rincorsa ai like è la vittoria di nessuno che impedisce di distinguere l'opinione "di chi vale di più" - parole di Platone - dall'"audacia" di chi semplicemente chiacchiera. E aggiungerebbe Cicerone: "Quousque tandem?"

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Che tristezza il nostro dibattito pubblico. Si dirà: sempre meglio che dare l’assalto al Parlamento come hanno fatto in America. Sì, ma la tristezza resta. Non è possibile che in un momento come questo, in cui l’Italia si gioca davvero presente e futuro, appaia così grande l’abisso tra la posta in gioco e i protagonisti che stanno giocando la partita. Un po’ come i “pubblici teatrali” di cui parla Platone nelle Leggi, i quali, anziché affidarsi al giudizio di coloro che sanno di musica, si sono poco a poco convinti di poter dire qualsiasi cosa, di poter gridare le proprie opinioni per partito preso, incuranti della propria ignoranza, anche il nostro dibattito pubblico sta inscenando ormai una “miserabile teatrocrazia”, dove è sempre più difficile distinguere quelli che Platone avrebbe definito i “valentuomini” dalle “persone da nulla”. Ciò che soprattutto conta è esserci, alzare la voce o parlare sulla voce dell’altro, nella convinzione che proprio da questa presenza “teatrale” dipenda in gran parte il consenso degli spettatori-elettori.

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Che tristezza il nostro dibattito pubblico. Si dirà: sempre meglio che dare l’assalto al Parlamento come hanno fatto in America. Sì, ma la tristezza resta. Non è possibile che in un momento come questo, in cui l’Italia si gioca davvero presente e futuro, appaia così grande l’abisso tra la posta in gioco e i protagonisti che stanno giocando la partita. Un po’ come i “pubblici teatrali” di cui parla Platone nelle Leggi, i quali, anziché affidarsi al giudizio di coloro che sanno di musica, si sono poco a poco convinti di poter dire qualsiasi cosa, di poter gridare le proprie opinioni per partito preso, incuranti della propria ignoranza, anche il nostro dibattito pubblico sta inscenando ormai una “miserabile teatrocrazia”, dove è sempre più difficile distinguere quelli che Platone avrebbe definito i “valentuomini” dalle “persone da nulla”. Ciò che soprattutto conta è esserci, alzare la voce o parlare sulla voce dell’altro, nella convinzione che proprio da questa presenza “teatrale” dipenda in gran parte il consenso degli spettatori-elettori.

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Premesso che finché vorremo restare una democrazia liberale non è ammissibile che qualcuno venga tenuto fuori dal dibattito pubblico semplicemente perché è ignorante, malvestito o volgare, è pur vero che una democrazia liberale non può permettersi troppa “imprudenza”, troppa indifferenza tra l’opinione “di chi vale di più” e l’“audacia” di chi semplicemente chiacchiera o la furbizia di chi semplicemente tace e ubbidisce (le parole tra virgolette sono di Platone). La pandemia sta mettendo a nudo inesorabilmente le inefficienze del nostro sistema sanitario (e non solo!), ma continuiamo a celebrarlo come il migliore del mondo; dovremmo approntare progetti seri per utilizzare i molti miliardi del Recovery fund, ma pare che ancora non vi sia traccia di nulla; abbiamo un debito da default che per ora viene nascosto dalla Bce che compra i nostri btp, ma continuiamo imperterriti con le politiche dei bonus; abbiamo una disoccupazione in attesa di esplodere una volta che cadranno le toppe messe in atto per contenerla (ci siamo quasi), ma nessuno che dica con chiarezza che cosa fare per rilanciare impresa e lavoro. Quanto potrà durare tutto questo? Quanto potrà durare che quando un rappresentante del governo o dell’opposizione parla di queste cose, salvo rarissime eccezioni, si ha sempre la deprimente sensazione di trovarsi di fronte a spocchia, noncuranza, ignoranza e preoccupazione di contrastare semplicemente l’opinione avversa?

 

Qualcuno dirà che questa è la politica ai tempi di Internet. Ma non è possibile che la politica sia soltanto comunicazione politica. So bene ovviamente che i messaggi politici, e non solo quelli, viaggiano oggi prevalentemente in rete e in televisione e che in rete e in televisione si possono vincere o perdere le elezioni. I social network e la televisione sono strumenti formidabili ma non credo però, mi si perdoni la banalità, che il linguaggio e la pratica politica possano ridursi alla rete e alla televisione. E dico questo non soltanto perché esiste di sicuro un nesso tra l’enorme semplificazione, un certo imbarbarimento dell’odierno dibattito pubblico e il trionfo del linguaggio dei vari media. Lo dico per una ragione più profonda. Più la politica si appiattisce sulla mera propaganda, sull’audience, sui like, sui sondaggi quotidiani e più essa rischia di diventare una politica di nessuno. Proprio così: politica di nessuno; una politica che, riducendosi a macchina per ottenere consensi, finisce per sacrificare se stessa, la propria natura, la propria identità, se si vuole, la propria nobiltà, ai desideri del telespettatore-elettore.

 

A scanso di equivoci, non intendo dire in alcun modo che il consenso sia un valore marginale della politica. Da anni vado dicendo che in una liberaldemocrazia è sempre meglio un errore affermato col consenso della maggioranza dei cittadini, che una presunta verità imposta con la politica non può essere soltanto pragmatismo e ricerca del consenso, magari sbandierando strumentalmente ora la “volontà popolare”, ora la presunta sacralità delle istituzioni. Così facendo, infatti, si svuotano i fondamenti stessi della politica, si dà a vedere di essere disposti a tutto, pur di ottenere consenso e si favorisce soltanto una “miserabile teatrocrazia”.

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Purtroppo, se guardiamo le forze politiche che di questi tempi si contendono la scena, salvo rare eccezioni, direi che, anche quando sono radicalmente contrapposte, esse sono accomunate proprio da un medesimo atteggiamento di fondo: farsi belle il più possibile rispetto a un pubblico-cliente-elettore da soddisfare nei suoi desideri più disparati, anche con promesse che si sa di non poter mantenere. Solo che in questo modo si possono, sì, vincere le elezioni, ma alla fine ci si accorge appunto che ha vinto nessuno, lasciando carta bianca alla cosiddetta “antipolitica”, ai populismi, ai signori dell’informazione o magari ai magistrati. Auguriamoci di vedere in futuro forze politiche capaci di prendere sul serio le proprie responsabilità, parlando apertamente dei problemi drammatici che bisogna affrontare, anche a rischio di perdere consensi. Avremo quanto meno la certezza che a vincere o perdere sarà qualcuno.

 

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