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Quant'è dolce il vecchio politichese

L’ora d’aria della crisi per un attimo fa dimenticare la pandemia

Salvatore Merlo

Nella tensioni del governo e nel suo teatro si nasconde il sentimento che così siamo, che questo è il nostro vero volto, il nostro destino storico: pasticciato ma fidato, grottesco ma rassicurante. Altro che coronavirus

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Crisi pilotata”, “crisi al buio”, “responsabili”, “fiducia” e “sfiducia”, “consultazioni”, “appoggio esterno”. E poi ancora l’ennesimo “vertice“, il duraturo e impalpabile “patto di legislatura”, il sospirato “rimpasto” e il temuto “voto”. Sarà ancora Bisconte, Terconte o a casa Conte? Ecco quella cara vecchia sintomatica varietà di formule, ognuna delle quali prevede un patto di potere, o un disastro, che se non è zuppa è pan bagnato. Ecco la resistenza della vecchia ben conosciuta Italia di sempre, fiaccata dal Covid ma non del tutto doma. Ecco insomma lo svago pericoloso, eppure in fondo così tranquillizzante, che in questi giorni stravolge i palinsesti radiofonici e televisivi, modifica l’impaginazione dei giornali, riconduce persino i talk-show alla consuetudine del rito eterno. Dunque fuori i virologi e dentro i politologi, due categorie che tra loro non hanno ovviamente nulla da spartire, se non il fatto che come i primi non capiscono nulla dei virus i secondi non stanno capendo nulla della crisi di governo più bislacca e contorta della storia della Repubblica.

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Crisi pilotata”, “crisi al buio”, “responsabili”, “fiducia” e “sfiducia”, “consultazioni”, “appoggio esterno”. E poi ancora l’ennesimo “vertice“, il duraturo e impalpabile “patto di legislatura”, il sospirato “rimpasto” e il temuto “voto”. Sarà ancora Bisconte, Terconte o a casa Conte? Ecco quella cara vecchia sintomatica varietà di formule, ognuna delle quali prevede un patto di potere, o un disastro, che se non è zuppa è pan bagnato. Ecco la resistenza della vecchia ben conosciuta Italia di sempre, fiaccata dal Covid ma non del tutto doma. Ecco insomma lo svago pericoloso, eppure in fondo così tranquillizzante, che in questi giorni stravolge i palinsesti radiofonici e televisivi, modifica l’impaginazione dei giornali, riconduce persino i talk-show alla consuetudine del rito eterno. Dunque fuori i virologi e dentro i politologi, due categorie che tra loro non hanno ovviamente nulla da spartire, se non il fatto che come i primi non capiscono nulla dei virus i secondi non stanno capendo nulla della crisi di governo più bislacca e contorta della storia della Repubblica.

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E insomma Di Maio e Andrea Orlando, il Pd e l’M5s, dicono che no, che non si può essere così sciagurati da aprire una crisi durante la pandemia — ieri seicento morti — eppure resta il fatto che sia proprio la crisi di governo a farci dimenticare per un attimo l’orrore della malattia. Magnifica crisi di governo, quindi. Anzi: salvifica paleo-muffa politichese. L’abituale affollarsi di macchiette che cambiano idea ogni cinque minuti, il negoziato che procede con l’andatura d’uno zoppo che corre, la proliferazione del pettegolezzo, il ritorno del simpatico Mastella, il sospetto del tradimento, il richiamo a Scilipoti, lo scouting di Goracci, ma anche Salvini che allude alle larghe intese, Meloni che invece vuole le elezioni subito, Berlusconi che sogna il ribaltone e Franceschini che vorrebbe afferrare il Quirinale. Tutto non solo assume un inconfondibile profumo retrò, ma è un balsamo che ci riporta anche alle vecchie amabili sicurezze, alla certezza dell’incertezza. A un paese incastonato in un groviglio spinoso di aggettivi e altre variabili lessicali, che non sono “droplet” e “spreader”, ma l’arzigogolio della politica, l’antico linguaggio democristiano che improvvisamente si configura come un modo addirittura piacevole di tornare noi stessi. Basta con i bollettini, con i conflitti tra libertà e salute, con l’epidemiologo che da Giletti urla contro l’analista di laboratorio. Quant’è buona invece quest’ora d’aria, satura di fuffa bizantina! Com’è bello soffocare nella cipria e nell’imbonimento parlamentare. Com’è dolce il caffè al bancone del bar nel centro di Roma: “Poraccio Conte, Renzi è teribbile”.

  

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Nella crisi di governo e nel suo teatro si nasconde infatti il sentimento che così siamo, che questo è il nostro vero volto, che questo è il nostro destino storico: pasticciato ma fidato, grottesco ma rassicurante. Altro che coronavirus. Tornano le stesse parole, le stesse atmosfere, le stesse conclusioni di sempre, talvolta gli stessi sensali. Un tempo Denis Verdini, oggi chissà, forse Bruno Tabacci e persino Pier Luigi Bersani. E infatti eccoli i giornali, che pubblicano le fotine dei responsabili, mentre le televisioni d’un tratto ribaltano l’offerta informativa e spostano gli inviati dall’ospedale Spallanzani a Palazzo Chigi. Tutto avviene in misura tale da far pensare che il loro impegno non sia rivolto al racconto delle contorsioni di governo ma piuttosto all’esposizione evidente della nostalgia, il sentimento che più della rabbia e più del rancore, forse più della paura del Covid, ingombra e illustra l’Italia mentre osserva Conte e Renzi, Zingaretti e Di Maio, maschere che si allontanano, si avvicinano, piroettano, si confondono e alla fine si disperdono mentre l’orchestra continua a suonare, oggi come sempre, dalla Prima alla Seconda Repubblica, quella canzone di Rodolfo De Angelis. Com’è che faceva? “Ma cos’è questa crisi/ ma cos’è questa crisi/ Metta in scena un buon autore/ Faccia agire un grande attore e vedrà... che la crisi passerà”.

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