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I paragoni impietosi fra il Recovery italiano e quello francese

Giacinto Della Cananea

Parigi ha presentato un piano già a settembre, con relativo pannello di controllo. Il nostro processo decisionale si è perso invece negli uffici di Palazzo Chigi

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Da quando il Consiglio europeo ha approvato le linee essenziali del Next Generation EU, è stato chiaro a tutti che a finanziare una parte molto consistente delle risorse necessarie per realizzare gli investimenti pubblici, e sostenere – così – la domanda interna, sarebbe stato il Recovery Fund. E’ stato ugualmente chiaro a tutti che, per poter attingere al Recovery Fund, lo Stato avrebbe dovuto spendere di più e soprattutto molto meglio, per due motivi. Innanzitutto, perché per attingervi non basta presentare progetti credibili, ma occorre dimostrare di aver rispettato le varie fasi della loro realizzazione, mentre finora la nostra capacità di impegnare le spese e di effettuarle è inferiore rispetto sia ai principali partner, sia ai paesi più piccoli, i quali da tempo hanno mostrato di saper utilizzare al meglio i fondi europei, come l’Irlanda. Inoltre, perché il Recovery fund erogherà risorse finanziarie per vari anni: il 70 per cento quest’anno e quello prossimo, il restante 30 per cento entro la fine del 2023, ma con pagamenti che potranno essere effettuati entro i successivi tre anni. Ne derivano tre necessità: provvedere presto e bene all’elaborazione del piano nazionale di ripresa e resilienza; discuterlo con tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, dal momento che la sua attuazione richiede scelte che condizioneranno i bilanci dei prossimi anni, oltre la fine dell’attuale legislatura; predisporre tempestivamente le misure organizzative, i procedimenti e i controlli necessari per assicurare il buon successo dell’attuazione. Vediamo come sono andate le cose.

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Da quando il Consiglio europeo ha approvato le linee essenziali del Next Generation EU, è stato chiaro a tutti che a finanziare una parte molto consistente delle risorse necessarie per realizzare gli investimenti pubblici, e sostenere – così – la domanda interna, sarebbe stato il Recovery Fund. E’ stato ugualmente chiaro a tutti che, per poter attingere al Recovery Fund, lo Stato avrebbe dovuto spendere di più e soprattutto molto meglio, per due motivi. Innanzitutto, perché per attingervi non basta presentare progetti credibili, ma occorre dimostrare di aver rispettato le varie fasi della loro realizzazione, mentre finora la nostra capacità di impegnare le spese e di effettuarle è inferiore rispetto sia ai principali partner, sia ai paesi più piccoli, i quali da tempo hanno mostrato di saper utilizzare al meglio i fondi europei, come l’Irlanda. Inoltre, perché il Recovery fund erogherà risorse finanziarie per vari anni: il 70 per cento quest’anno e quello prossimo, il restante 30 per cento entro la fine del 2023, ma con pagamenti che potranno essere effettuati entro i successivi tre anni. Ne derivano tre necessità: provvedere presto e bene all’elaborazione del piano nazionale di ripresa e resilienza; discuterlo con tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, dal momento che la sua attuazione richiede scelte che condizioneranno i bilanci dei prossimi anni, oltre la fine dell’attuale legislatura; predisporre tempestivamente le misure organizzative, i procedimenti e i controlli necessari per assicurare il buon successo dell’attuazione. Vediamo come sono andate le cose.

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Da quando l’impegno relativo al Recovery fund ha assunto priorità – luglio del 2020 – è cresciuta la pressione sui governi nazionali, ai quali spetta redigere i rispettivi piani all’interno delle linee guida (a volte discutibili) stabilite dalla Commissione. I governi hanno assolto questo compito in vari modi. Può essere utile un confronto con la Francia, dove sia il presidente Macron, sia il Primo ministro sono stati allievi dell’Ena, la prestigiosa scuola di formazione della dirigenza pubblica. Già il 3 settembre è stato presentato il piano “France Relance”, che unisce le risorse finanziarie nazionali a quelle messe a disposizione dall’Ue. Il 16 novembre è stato pubblicato un “tableau de bord”, cioè una sorta di pannello di controllo, che permette di monitorare la realizzazione del piano per una quindicina di politiche particolarmente rappresentative, dall’ecologia al sostegno all’industria e a quello per le famiglie a basso reddito. A quella data erano già note le somme stanziate per i progetti più specifici, per esempio, 60 milioni per dare un nuovo impulso alla digitalizzazione degli scambi commerciali, per i quali all’inizio di dicembre sono stati depositati più di mille dossier.

 

Da noi, invece, come ha osservato l’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria, il “processo decisionale si è disperso tra vari dicasteri, e soprattutto negli uffici di Palazzo Chigi, che hanno operato senza il Parlamento e con una certa superficialità”, tanto è vero che è stato possibile spostare ingenti risorse da una parte all’altra, come nove miliardi per la sanità (intervista a Libero quotidiano del 10 gennaio 2021). La situazione non è migliore dagli altri due punti di vista. Fin dal 5 marzo dell’anno scorso, il presidente Mattarella ha chiesto “coinvolgimento, condivisione, concordia e unità d’intenti”, rivolgendosi a tutti, cioè tanto alle forze politiche di maggioranza, quanto alle opposizioni. Ma il Parlamento non è stato coinvolto, sebbene abbia nel frattempo approvato con ampie maggioranze scostamenti di bilancio per più di cento miliardi di euro. E’ un paradosso che, per usare le parole del presidente, vi sia stata concordia e unità sul delicato versante della finanza, senza il coinvolgimento e la condivisione sul versante delle scelte sostanziali. Infine, come osservato da Tria, anziché sulle misure per rendere più efficienti tutte le pubbliche amministrazioni, incluse quelle regionali e locali che dovranno gestire buona parte dei progetti, il dibattito nelle sedi istituzionali si è concentrato sulla struttura di supporto alla presidenza del Consiglio. Diversamente da quanto si è sostenuto da più parti, le linee guida della Commissione del 17 settembre 2020 non indicano quale tipo di struttura occorra, limitandosi a richiedere che i governi illustrino se un’infrastruttura già esista o debba essere creata. Ad ogni modo, il ritardo è cresciuto e con esso la preoccupazione, non solo all’interno dell’Italia. Al di là dei discorsi ufficiali, le istituzioni europee osservano con inquietudine l’assenza di correttivi alla mediocre performance italiana nella gestione dei fondi strutturali. L’incertezza incide anche sulle strategie degli investitori, sui comportamenti delle famiglie. Spetta allo stato italiano, a chi lo governa, fornire risposte non solo immediate, ma adeguate e rassicuranti.

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