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La partita oltre il Recovery

Renzi e Conte: elogio di un negoziato

Il BisConte non c’è più, o quasi, ma dalle ceneri può nascere un nuovo equilibrio capace di dare più forza all’Italia tenendo lontano da Palazzo Chigi il governo dei vichinghi. Dove porta la formidabile inerzia della democrazia parlamentare

Claudio Cerasa

Se il duello dovesse concludersi con queste coordinate (più europeismo, meno populismo) ci sarebbero buoni motivi per festeggiare e per riconoscere alla democrazia parlamentare un tratto tutto sommato da non sottovalutare: la sua capacità a essere un argine naturale contro la tentazione del governo dei vichinghi

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Lo descrivono come se fosse una follia, come se fosse una demenza, come se fosse un’eresia, come se fosse un’anomalia. Ma la verità inconfessabile relativa al negoziato politico in corso tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi è che, comunque andrà a finire la partita a scacchi tra il premier di oggi e il premier di ieri, ci sono ottime ragioni per credere che la democrazia parlamentare italiana, anche in un paese come il nostro che i vichinghi li ha mandati a comandare in Parlamento senza sfondare le recinzioni della polizia ma direttamente su mandato popolare, dimostrerà di essere ancora una volta un formidabile argine contro ogni forma di populismo.

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Lo descrivono come se fosse una follia, come se fosse una demenza, come se fosse un’eresia, come se fosse un’anomalia. Ma la verità inconfessabile relativa al negoziato politico in corso tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi è che, comunque andrà a finire la partita a scacchi tra il premier di oggi e il premier di ieri, ci sono ottime ragioni per credere che la democrazia parlamentare italiana, anche in un paese come il nostro che i vichinghi li ha mandati a comandare in Parlamento senza sfondare le recinzioni della polizia ma direttamente su mandato popolare, dimostrerà di essere ancora una volta un formidabile argine contro ogni forma di populismo.

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Lo descrivono come se fosse una follia, come se fosse una demenza, come se fosse un’eresia, come se fosse un’anomalia. Ma la verità inconfessabile relativa al negoziato in corso tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi è che a prescindere da quale sarà il destino dei duellanti la legislatura trarrà da questo scontro più benefici che malefici. E’ possibile che tutto finisca con un Conte Ter a trazione renziana (Renzi vorrebbe le dimissioni di Conte prima del voto in Aula sul Recovery, Conte no). E’ possibile che tutto finisca con un Conte Ter con una maggioranza allargata a un pezzo di Forza Italia (Conte lo vorrebbe, Renzi no). Ma al di là di quella che sarà la formula che verrà individuata per dare un futuro a questa legislatura ci sono buone ragioni per credere che l’esito del negoziato aiuterà l’Italia a fare più un passo in avanti che uno indietro.

   

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Nella legislatura più pazza del mondo non c’è stato un solo negoziato che non abbia avuto come effetto quello di allontanare l’Italia dalla terra dei vichinghi facendola avvicinare sempre di più alla terra dell’Europa. E in fondo dal 4 marzo del 2018 a oggi anche le trattative più dure (prescrizione a parte) hanno spesso spinto l’Italia verso una direzione leggermente migliore rispetto al giorno prima. E’ andata così con la scelta del ministro dell’Economia del governo gialloverde (si voleva un anti euro, si è scelto un sì euro). E’ andata così con la prima Manovra che doveva sfondare il deficit (si voleva buttare il bilancio dell’Italia dal balcone, si è scelto di trasformare un meno 2,3 in un meno 2,03). E’ andata così con il voto che doveva confermare i lavori della Tav (la Lega arrivò a votare con il Pd). E’ andata così con il passaggio dal Conte Uno al Conte Bis (meno putinismo, più atlantismo). E’ andata così con il voto sul pacchetto del Mes (meno anti europeismo, più europeismo). E ci sono buone probabilità che alla fine dei conti, crisi o non crisi, scazzi o non scazzi, rotture o non rotture, andrà allo stesso modo anche questa volta. Se è vero, come si dice, che la prossima maggioranza sarà meno timida sul Mes. Se è vero, come si dice, che il prossimo governo indirizzerà i soldi del Recovery per progetti orientati un po’ più alla crescita e un po’ meno all’assistenzialismo. Se è vero, come si dice, che i nuovi equilibri in Parlamento potrebbero portare il governo a mettere al centro della sua agenda maggiore attenzione ai temi della Pubblica amministrazione da efficientare, alla giustizia da velocizzare, alla flessibilità del lavoro da non demonizzare.

   

Nella storia di questo Parlamento (i vaccini intanto corrono con la crisi, figuriamoci quando la crisi finirà) le quasi crisi si sono sempre (o quasi) risolte con una maggiore dose di europeismo e una minore dose di populismo e alla fine dei conti è possibile che lo scazzo tra il premier di oggi e quello di ieri (paradossi della vita: a rendere indispensabile il premier di oggi è stato proprio il premier di ieri, ovvero Renzi, prima proponendolo come volto con cui superare il governo con Salvini, nel 2019, e ora trasformandolo per il M5s in un totem da difendere a tutti i costi) si risolva seguendo lo schema suggerito ieri sera al telefono da un volto importante della truppa renziana.

   

Lo schema è questo: “Noi meno del Conte Ter non accetteremo, e ad ora Conte non molla su questo, ma deve capire che per andare avanti occorre dare un senso alla svolta, non basta un ritocchino, e vedrete che a una crisi si arriverà e se si troverà un accordo nelle prossime ore la crisi potrebbe essere rapida, pilotata, indolore. Ma sarà una crisi dalla quale si dovrà uscire con un altro governo, con una maggioranza più ambiziosa e con una nuova fiducia in Parlamento”. Lo descrivono come se fosse una follia, come se fosse una demenza, come se fosse un’eresia, come se fosse un’anomalia. Ma se il duello dovesse concludersi con queste coordinate (più europeismo, meno populismo) ci sarebbero buoni motivi per festeggiare e per riconoscere alla democrazia parlamentare un tratto tutto sommato da non sottovalutare: la sua capacità di essere un argine naturale contro la tentazione del governo dei vichinghi.

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