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La sfida più dura per la destra italiana

Claudio Cerasa

La disfatta del trumpismo costringe Salvini e Meloni a dimostrare di non essere ostaggi della destra dei fascio-vichinghi

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Prima gli si è prosciugato il serbatoio dell’anti europeismo: l’Europa ha cominciato a crescere, a fare la grande, a mostrare i muscoli, a portare i risultati e il massimo che oggi possano dire, all’Europa un tempo brutta e cattiva, è: cara Europa, scusaci, ma ora devi fare di più. Poi gli si è prosciugato il serbatoio del nazionalismo: la Brexit ha prodotto i risultati che sappiamo, i moti in Catalogna hanno generato l’instabilità che conosciamo, la suggestione del ritorno alle monete sovrane ha destabilizzato le economie con un’irruenza non inferiore a quella di una pandemia e il massimo che oggi si riesca a dire è, per favore, cari europei, dateci un’Europa federale oltre che solidale. Quindi gli si è prosciugato il serbatoio del putinismo: la Russia è diventata impresentabile anche agli occhi di tutti coloro che sostenevano fieramente che fosse meglio vivere a Mosca che a Bruxelles, i soldi russi sono diventati più infetti di un droplet in metropolitana e, quatti quatti, i sostenitori del putinismo hanno così scelto di rivolgere le proprie attenzioni più all’America di Trump che alla Russia dello zar. Ora, dopo infinite peripezie, anche il serbatoio del trumpismo, nonostante il clima un po’ da Pontida osservato tra i vichinghi a passeggio con le corna tra i corridoi di Capitol Hill, gli è venuto politicamente a mancare. E al cospetto della più grave minaccia democratica mai registrata nella storia degli Stati Uniti – minaccia alimentata naturalmente dal proprio beniamino americano – le forze politiche che oggi sembrano essere più impreparate ad affrontare il dopo Trump sono quelle che si trovano nel paese europeo che, due anni fa, aveva promesso all’Europa che avrebbe esportato il modello Trump anche nel nostro continente: l’Italia.  

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Prima gli si è prosciugato il serbatoio dell’anti europeismo: l’Europa ha cominciato a crescere, a fare la grande, a mostrare i muscoli, a portare i risultati e il massimo che oggi possano dire, all’Europa un tempo brutta e cattiva, è: cara Europa, scusaci, ma ora devi fare di più. Poi gli si è prosciugato il serbatoio del nazionalismo: la Brexit ha prodotto i risultati che sappiamo, i moti in Catalogna hanno generato l’instabilità che conosciamo, la suggestione del ritorno alle monete sovrane ha destabilizzato le economie con un’irruenza non inferiore a quella di una pandemia e il massimo che oggi si riesca a dire è, per favore, cari europei, dateci un’Europa federale oltre che solidale. Quindi gli si è prosciugato il serbatoio del putinismo: la Russia è diventata impresentabile anche agli occhi di tutti coloro che sostenevano fieramente che fosse meglio vivere a Mosca che a Bruxelles, i soldi russi sono diventati più infetti di un droplet in metropolitana e, quatti quatti, i sostenitori del putinismo hanno così scelto di rivolgere le proprie attenzioni più all’America di Trump che alla Russia dello zar. Ora, dopo infinite peripezie, anche il serbatoio del trumpismo, nonostante il clima un po’ da Pontida osservato tra i vichinghi a passeggio con le corna tra i corridoi di Capitol Hill, gli è venuto politicamente a mancare. E al cospetto della più grave minaccia democratica mai registrata nella storia degli Stati Uniti – minaccia alimentata naturalmente dal proprio beniamino americano – le forze politiche che oggi sembrano essere più impreparate ad affrontare il dopo Trump sono quelle che si trovano nel paese europeo che, due anni fa, aveva promesso all’Europa che avrebbe esportato il modello Trump anche nel nostro continente: l’Italia.  

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Non esiste un solo paese europeo in cui i leader della destra abbiano condannato lo spettacolo osceno offerto mercoledì sera dalle truppe trumpiane con parole così timide come quelle offerte dalla destra italiana. Non è successo in Francia (dove Marine Le Pen ha invitato Trump a “condannare nel modo più chiaro quello che è successo”). Non è successo in Olanda (dove anche Geert Wilders ha attaccato Trump ricordando che “il risultato delle elezioni democratiche dovrebbe essere sempre rispettato, che tu vinca o perda”). Non è successo in Austria (dove Sebastian Kurz ha detto che quello visto a Capitol Hill è “un attacco inaccettabile alla democrazia”). Non è successo in Germania (dove persino l’AfD ha detto che “chiunque attacchi violentemente i parlamenti mira al cuore della democrazia”). Non è successo in Slovenia (dove il primo ministro nazionalista Janez Jansa, che a novembre si era congratulato con Trump per “aver vinto” il voto contro Biden prima del risultato elettorale, ha denunciato le violenze a Washington, aggiungendo che sperava che la democrazia americana “superasse questa crisi”). E’ successo invece in Italia, dove i cheerleader del trumpismo (quelli veri) non hanno trovato nulla di meglio da fare che condannare le violenze di martedì sera con le seguenti parole. Dice Salvini, riuscito nel miracolo di non dire nulla su Trump e di fare una dichiarazione che più generica non si può: “La violenza non è mai la soluzione, mai. Viva la libertà e la democrazia, sempre e dovunque”. Dice Meloni, riuscita a sua volta nel miracolo di citare Trump solo per dire che ha ragione anche sui disordini di Capitol Hill: “Seguo con grande attenzione e apprensione quanto sta accadendo negli Stati Uniti, mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal presidente Trump”. Naturalmente non si tratta di due sviste casuali (solo un’opposizione come quella italiana poteva rendere un trumpiano di complemento il più trumpiano dei capi di governo europei, Giuseppe Conte, che nel frattempo, pur non mollando Trump, qui in Italia ha mollato i trumpiani prima che fosse troppo tardi) ma si tratta al contrario di un tema politico di primo piano.

 

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La democrazia americana è ferita, e speriamo che Joe Biden abbia con sé un vaccino per curare le sue ferite, ma le democrazie che in prospettiva futura se la rischiano di più sono quelle dominate da leader politici incapaci di riconoscere il profilo profondamente illiberale del trumpismo (“le libertà – diceva Filippo Turati – sono tutte solidali: non se ne offende una senza offenderle tutte”) e sono quelle incapaci di offrire ai propri elettori una narrazione che sappia emanciparsi fino in fondo dalla cultura complottista, dalla democrazia dei creduloni, dalla grammatica anti sistema e dalla cultura anti casta.

   

Due anni fa, ai tempi delle politiche, la destra italiana (eccezion fatta per il grande Cav.) era una destra che prometteva di esportare in Europa la rivoluzione trumpiana. Due anni dopo le elezioni politiche, la destra italiana si ritrova a essere non più la portavoce di una rivoluzione ma la copia sbiadita di una rivoluzione non riuscita. E ora che i serbatoi della destra sovranista si sono svuotati sarà compito dei leader della destra italiana fare quello che oggi risulta difficile credere: dimostrare che la destra italiana non è una copia solo un po’ sbiadita di quella destra americana che ha spinto i fascio-vichinghi nei corridoi della democrazia americana.

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