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La lezione del vaccino: da soli non si va da nessuna parte

Claudio Cerasa

Odi et Ema. Anche i paesi più sovranisti costretti ad arrendersi alla collaborazione globale. E brava l’Europa

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No: da soli non si va da nessuna parte. Richard Horton è un professore onorario alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, insegna all’University College di Londra e all’Università di Oslo e da venticinque anni è direttore di Lancet, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo. Qualche giorno fa, in un tweet polemico dedicato alla Brexit, si è posto una domanda saggia, sul futuro e sul passato della pandemia, che vale la pena di approfondire. Il Covid, ha detto Horton, ha dimostrato molte cose. Ma ne ha dimostrata una su tutte: che la sovranità è morta, che i problemi globali richiedono soluzioni globali e che l’idea di riprendere il controllo, take back control, è semplicemente illusoria. Eppure, dice Horton riferendosi alla Gran Bretagna, il nostro governo crede che possiamo fare tutto da soli e non capisce che, su questa come su altre partite, le cose sono semplici e ovvie: il benessere del nostro futuro dipende dalla collaborazione con i nostri vicini.

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No: da soli non si va da nessuna parte. Richard Horton è un professore onorario alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, insegna all’University College di Londra e all’Università di Oslo e da venticinque anni è direttore di Lancet, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo. Qualche giorno fa, in un tweet polemico dedicato alla Brexit, si è posto una domanda saggia, sul futuro e sul passato della pandemia, che vale la pena di approfondire. Il Covid, ha detto Horton, ha dimostrato molte cose. Ma ne ha dimostrata una su tutte: che la sovranità è morta, che i problemi globali richiedono soluzioni globali e che l’idea di riprendere il controllo, take back control, è semplicemente illusoria. Eppure, dice Horton riferendosi alla Gran Bretagna, il nostro governo crede che possiamo fare tutto da soli e non capisce che, su questa come su altre partite, le cose sono semplici e ovvie: il benessere del nostro futuro dipende dalla collaborazione con i nostri vicini.

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Il ragionamento di Horton è utile da mettere a fuoco in queste ore non solo per via delle notizie non positive che arrivano dalla Gran Bretagna sul virus mutato – se mai il virus dovesse essere più pericoloso di quello attuale, la Gran Bretagna, per riprendere il controllo, avrà bisogno di collaborare con gli stessi paesi europei da cui sta cercando di fuggire tramite Brexit – ma anche per via di una notizia più positiva che è quella relativa al primo vaccino anti Covid, lo Pfizer-BioNTech, ormai vidimato non solo dalla Fda americana ma anche dall’Ema europea.

  

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“La pandemia – suggerisce al telefono con il Foglio Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri – ha fatto vedere una collaborazione senza precedenti fra medici, scienziati, ricercatori di accademia e industria, a tutti i livelli, ciascuno nel suo campo, da ogni parte del mondo. Basti pensare che il vaccino europeo parte dagli studi di due ricercatori di origine turca che sono arrivati al successo triangolando con il ceo greco della Pfizer…”.

   

Il vaccino nato grazie all’asse strategico costruito da BioNTech e Pfizer non ha però una sua forte valenza simbolica solo a causa della storia dei fondatori di BioNTech (due scienziati di origine turca) e solo a causa della storia del ceo di Pfizer (un greco nato a Salonicco da una famiglia di ebrei). Ha una grande valenza simbolica anche per altre ragioni legate alla straordinaria natura globale del primo vaccino anti Covid. BioNTech, come sapete, è un’azienda tedesca, che è riuscita ad arrivare al traguardo del vaccino grazie ai soldi stanziati a fondo perduto dal governo tedesco, dalla cattivissima Angela Merkel, e grazie ai soldi stanziati a fondo perduto anche dall’Europa, la cattivissima Europa, attraverso la Banca europea degli investimenti.

   

Pfizer, a sua volta, ha scelto di allearsi con BioNTech, azienda finanziata anche con soldi pubblici dell’Europa e della Germania, rinunciando invece, pur essendo un’azienda americana, a ricevere i fondi pubblici dell’Amministrazione americana, per avere più libertà di manovra ed evitare il rischio di poter essere condizionata, nella sua corsa contro il Covid, dalle richieste della politica americana – meglio agire su scala globale che essere ostaggi della politica di una sola nazione. Una storia simile, da un certo punto di vista, ce l’ha uno degli altri due vaccini che si trova a un passo dall’approvazione della Fda, il vaccino portato avanti da AstraZeneca, un’azienda biofarmaceutica britannica quotata alla Borsa di Londra e nata dalla fusione tra una società svedese (Astra AB) e una inglese (Zeneca Group) che ha lavorato in questi mesi in partnership con l’azienda italiana Advent-Irbm di Pomezia, azienda che nel 2013 trovò per prima il vaccino anti Ebola, acquisito poi dalla società britannica GlaxoSmithKline (Gsk).

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E così più ci si guarda attorno e più si ha l’impressione che la pandemia abbia dimostrato che più i problemi sono grandi, maggiore è l’evidenza che non si possano risolvere facendo tutto da soli (il vaccino Moderna, approvato due giorni fa dalla Fda, è stato ideato grazie al lavoro condotto dal ceo di Moderna, un libanese di origine armena, che ha lavorato a fianco di uno scienziato israeliano nato a Haifa). E così, se si osserva il mondo che aspetta i vaccini provando ad allargare la nostra inquadratura, apparirà chiaro come anche i paesi più desiderosi di mostrare al mondo la forza del nazionalismo siano stati costretti ad arrendersi alla collaborazione globale.

  
La Gran Bretagna, per dimostrare di essere più veloce dell’Unione europea nell’approvazione dei vaccini – tralasciamo il fatto che il Regno Unito fino a fine dicembre risulta essere sempre un paese membro dell’Unione europea, seppur in periodo di transizione verso l’uscita, e che la Mhra, l’agenzia del farmaco britannica, si è attenuta alle regole europee per dare il via libera alla distribuzione del vaccino – ha scelto, per il suo grande D-Day, di non usare il vaccino prodotto in casa ma di usare, ops, quello prodotto tra Germania e Stati Uniti con i soldi della Merkel e con quelli dell’Europa.

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Nel Brasile di Bolsonaro la situazione è caotica ma anche lì i vaccini stanno arrivando. Nello stato di  San Paolo, 46 milioni di abitanti, dal prossimo 25 gennaio si inizierà a somministrare il vaccino della Sinovac, laboratorio cinese che da un anno lavora con l’Istituto Butantan, il maggiore centro di ricerca dell’America latina. A Brasilia, il governatore dell’area metropolitana ha detto di voler comprare almeno 40 milioni di dosi del vaccino della Pfizer, mentre il presidente Bolsonaro, che ha suggerito ai suoi cittadini di non prendere il vaccino della Pfizer per evitare di diventare come degli alligatori, ha scelto di puntare su un altro vaccino, quello di AstraZeneca-Oxford, prenotando 130 milioni di dosi per il 2021, dimostrando dunque che non era vero, come sosteneva un tempo, che contro il Covid sarebbe stato sufficiente ingerire un po’ di idroclorochina. La Cina, che nel frattempo ha convinto sia il Bahrein sia gli Emirati Arabi Uniti ad acquistare il suo vaccino, la scorsa settimana, tramite la Shanghai Fosun Pharmaceutical Group, ha detto, rinunciando alla sua idea di autosufficienza sanitaria, di voler acquistare 100 milioni di dosi del vaccino prodotto tra l’Europa e gli Stati Uniti.

 

Qualche giorno dopo anche la Shenzhen Kangtai Biological Products ha annunciato di aver acquisito almeno 100 milioni di dosi di un altro vaccino europeo, quello di AstraZeneca, e ha chiesto di riceverle con urgenza entro la fine dell’anno. A rinunciare alla sua autosufficienza è stata anche la Russia, la quale, nonostante abbia prodotto un vaccino che Vladimir Putin ha detto di essere pronto a sperimentare in prima persona (cosa che però incidentalmente ancora non ha fatto), è stata anche costretta ad ammettere che da sola, con il suo Sputnik, non ce la farà mai a proteggere i suoi cittadini. E per questo, in attesa di avere i macchinari necessari per aumentare la propria produzione, ha costruito un accordo ancora con AstraZeneca per avere un sufficiente approvvigionamento di vaccini e anche per provare a rendere più affidabile il proprio siero (la Russia ha dato molto risalto alla notizia che lo Sputnik è stato acquistato anche dal governo israeliano, dall’Hadassah Medical Center di Gerusalemme, segno che anche la Russia sa bene che per essere credibile ha bisogno di alleanze, di riconoscimenti internazionali, e che non può fare tutto da sola).

  

“Anche i nostri colleghi stranieri, grazie a Dio, si sono rivolti a noi – ha detto Putin – e sono pronti a collaborare laddove qualcosa non vada per loro. L’azienda anglo-svedese AstraZeneca è pronta a lavorare con noi e sta firmando un accordo appropriato”. Il ragionamento vale dunque quando si parla di collaborazione tra gli stati (in Europa e non solo) ma vale anche quando si parla di organizzazione nelle grandi istituzioni. E in fondo la pandemia ha ricordato a una grande istituzione come l’Europa che per avere più collaborazione fra gli stati non è doloroso cedere un pizzico della propria sovranità, a condizione che le istituzioni sappiano trasformare la cessione di sovranità in un surplus di efficienza.

 

Cosa che per esempio l’Europa è riuscita a fare non solo attraverso l’ideazione del Recovery ma anche attraverso il piano di acquisto dei vaccini. E se si pensa che a febbraio l’Europa combatteva con il blocco all’export delle mascherine e degli altri dispositivi di protezione voluto dalla Germania e che oggi la procedura negoziata d’urgenza per la fornitura di vaccini (procurement) è avvenuta su base comunitaria e non nazionale, si capirà che i passi in avanti da fare sono ancora molti (come raccontiamo anche oggi sul Foglio) ma che in questi mesi sono i passi in avanti fatti dall’Europa sul tema della collaborazione e della solidarietà ad aver creato una maggiore protezione al nostro continente.

    

“E’ nei momenti della verità – dice Stefano Vella, medico e accademico italiano, infettivologo e ricercatore – che  le teorie più strampalate del facciamo da soli perdono di efficacia, e ogni volta che il mondo è stato costretto a fare i conti con un’emergenza globale si è ritrovato a scoprire che di fronte ai grandi problemi chi prova a fare da solo di solito non riesce ad andare lontano”. Vale per il vaccino ma non solo per il vaccino. Vale durante una pandemia ma non solo durante una pandemia. E la lezione è semplice: se sei fuori dalla globalizzazione, sei fuori da tutto e solo chi saprà trasformare la circolazione dei cervelli e delle idee e della ricerca in un punto di forza sarà in grado di proteggere come si deve i propri cittadini. 

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