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Lo scudo del Colle su Conte, che si fa forte della debolezza del M5s

La minaccia del voto anticipato è inverosimile, eppure c'è. E non a caso al Quirinale si rispolvera il precedente del '94, quando Scalfaro siolse le Camere nonostante gli "autoconvocati". Renzi scalpita: "Il caos del M5s è il solito alibi per non cambiare niente". Ma dovrà accontentarsi della revisione della cabina di regia sul Recovery, per ora

Valerio Valentini

Al Quirinale sono convinti che, senza l'avvocato del popolo, il grillismo non dà garanzie di tenuta. Franceschini impone la frenata su Renzi, Guerini scruta Zingaretti. E il Pd lascia solo Renzi. La crisi è rimandata. Ancora

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Mentre gli eventi sembrano precipitare, il M5s, che l’ordine delle priorità ce l’ha sempre ben chiaro, per tutta la mattinata s’arrovella intorno al dilemma: “Chi deve andare al vertice con Giuseppe Conte?”. La formula ideata a Palazzo Chigi vorrebbe i capigruppo e il capo delegazione, e fin lì ci siamo; ma li vorrebbe insieme al capo politico. E qui sorge il dubbio. Perché Vito  Crimi, a sentire gli umori della truppa, per essere un reggente a tempo ne ha già trascorso troppo, di tempo, a credersi capo politico. “Lo volete capire –ha spiegato ai deputati che gli sono più vicini il viceministro Stefano Buffagni – che Vito la sta tirando in lungo, la manfrina degli Stati generali, per potere essere lui a gestire il rimpasto?”. E’ bene che vada anche Luigi Di Maio, quindi. Ma a che titolo? Se all’incontro della verità va il ministro degli Esteri, s’impone come necessaria pure la presenza di  Stefano Patuanelli, che  gestisce anche il dossier incriminato del Recovery. E dunque, alle tre del pomeriggio, si trova l’accordo: tutti a Chigi per vedere Conte.  

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Mentre gli eventi sembrano precipitare, il M5s, che l’ordine delle priorità ce l’ha sempre ben chiaro, per tutta la mattinata s’arrovella intorno al dilemma: “Chi deve andare al vertice con Giuseppe Conte?”. La formula ideata a Palazzo Chigi vorrebbe i capigruppo e il capo delegazione, e fin lì ci siamo; ma li vorrebbe insieme al capo politico. E qui sorge il dubbio. Perché Vito  Crimi, a sentire gli umori della truppa, per essere un reggente a tempo ne ha già trascorso troppo, di tempo, a credersi capo politico. “Lo volete capire –ha spiegato ai deputati che gli sono più vicini il viceministro Stefano Buffagni – che Vito la sta tirando in lungo, la manfrina degli Stati generali, per potere essere lui a gestire il rimpasto?”. E’ bene che vada anche Luigi Di Maio, quindi. Ma a che titolo? Se all’incontro della verità va il ministro degli Esteri, s’impone come necessaria pure la presenza di  Stefano Patuanelli, che  gestisce anche il dossier incriminato del Recovery. E dunque, alle tre del pomeriggio, si trova l’accordo: tutti a Chigi per vedere Conte.  

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E magari pare solo accanimento, questo soffermarsi sulle isterie del grillismo. Se non fosse che è proprio la debolezza  del M5s a conferire al fu avvocato del popolo, ancora una volta, una forza che non ha. Quella, cioè, di apparire come l’unica chiave di volta di un arco che traballa. E ci sta che abbia ragione Matteo Renzi, a dire che “in tanti, dentro e fuori il M5s, lo usano come alibi per non cambiare niente, il caos a cinque stelle”. Ma va detto che  alla recita partecipano in tanti.

 

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E allora ecco, a farsi interprete dei malumori del grillismo presso il Nazareno, quel Dario Franceschini che, da sacerdote del quieta non movere, nel fine settimana s’è mosso da par suo, per imporre il  contrordine: “Perché ad assecondare la crisi rischiamo di romperci la testa”. Trovando orecchie sensibili all’ascolto non solo in Andrea Orlando, ma anche nel corpaccione parlamentare che più sarebbe vicino, per storia e per per idee, al renzismo. E così succede che sia proprio Luca Lotti a predicare cautela, “ché con Matteo non si sa mai, e poi fino all’arrivo del semestre bianco meglio evitare salti nel vuoto”. E lo stesso ministro della Difesa Lorenzo Guerini suggerisce la calma, sapendo che Nicola Zingaretti – il quale è ormai pronto a ritirare la propria copertura all’iperattivismo di Renzi – la tentazione del voto anticipato non se l’è mica tolta di mente.  

 

E per quanto appaia inverosimile, l’idea di una chiamata alle urne in piena pandemia e con le trattative per il Recovery in corso, è un’idea che al Nazareno rotola giù dal Colle più alto. Dove non a caso, proprio pensando ai rischi di un collasso del M5s, in queste ore si è tornati a citare il precedente del gennaio 1994: quando cioè l’allora premier Ciampi dichiarò esaurita la missione del suo governo  e il presidente Scalfaro sciolse anzitempo le Camere,  ritenendo inutile lo zelo con cui Pannella e Bianco, autoconvocandosi all’alba davanti a Montecitorio, cercarono di dimostrare che una maggioranza numerica esisteva ancora. Il tutto, insomma, per ribadire che non basta la semplice aritmetica, a giustificare la sopravvivenza di una legislatura tenuta in piedi solo dall’ansia dei parlamentari di non tornare al voto.

 

E allora ecco che l’evanescenza politica del M5s,  serve in verità a Conte per ottenere, di riflesso, la protezione di Sergio Mattarella, che tiene il suo occhio vigile sulla verifica in corso senza nascondere la preoccupazione per il prolungarsi di rituali che appaiono assai poco comprensibili a una popolazione tribolata dal Covid. E insomma non è un caso se, tra le molte formule possibili per disinnescare l’assalto di quel Renzi che domani arriverà con la sua delegazione a incontrare Conte, il premier abbia scelto quella di svolgere delle consultazioni separate: perché è proprio nei dialoghi frontali, riservati, che i singoli leader possono avanzare le richieste che davvero hanno a cuore. Comprese quelle di qualche ministero in più. Ché in fondo Conte, già rassegnato a dover tornare indietro sulla struttura di missione prevista per la governance del Recovery, è convinto che oltre un rimpasto non si andrà. Un rimpasto piccolo piccolo, peraltro. E possibilmente senza una crisi parlamentare a fare da detonatore. E qui un altro precedente gli dà conforto: quello del luglio del 1990. Quando Andreotti vide dimettersi cinque suoi ministri e li sostituì, in modo indolore, in un paio d’ore. Tra i cinque che lasciarono c’era Mattarella. Come a dire, insomma, che quello sì, che si può fare. Sempre che ci si arrivi. 
 

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