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Euroapolidi

Bruxelles, quelli che restano nel M5S: “Di Maio ci lascia nel limbo”

Valerio Valentini

Dopo la scissione dei quattro, gli europarlamentari M5s non sanno a chi votarsi (Pse o Renew). Invidia per i “matti” che almeno hanno una casa. Di Maio preferisce ancora Macron

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Roma. Il paradosso, a guardarlo con gli occhi di chi lo vive in corpore vili, ha i connotati della beffa. “Perché i matti, facendo le cose in proprio, hanno trovato una sistemazione. E noi, che invece ci siamo assunti la briga di tenere una linea responsabile, stiamo ancora qui in mezzo al guado”. Eccola, l’assurdità, nelle parole dei europarlamentari del M5s. Di quelli che sono restati, in particolare: i dieci che seguono le direttive della capo delegazione Tiziana Beghin e del vicepresidente del Parlamento Fabio Massimo Castaldo (sempre che non diventino nove, se la procedura contro Dino Giarrusso, l’ex Iena finito nella polemica per i suoi finanziamenti elettorali, non si risolva in un’espulsione).

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Roma. Il paradosso, a guardarlo con gli occhi di chi lo vive in corpore vili, ha i connotati della beffa. “Perché i matti, facendo le cose in proprio, hanno trovato una sistemazione. E noi, che invece ci siamo assunti la briga di tenere una linea responsabile, stiamo ancora qui in mezzo al guado”. Eccola, l’assurdità, nelle parole dei europarlamentari del M5s. Di quelli che sono restati, in particolare: i dieci che seguono le direttive della capo delegazione Tiziana Beghin e del vicepresidente del Parlamento Fabio Massimo Castaldo (sempre che non diventino nove, se la procedura contro Dino Giarrusso, l’ex Iena finito nella polemica per i suoi finanziamenti elettorali, non si risolva in un’espulsione).

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Sono rimasti e mugugnano. Perché gli altri, “i matti”, i quattro scissionisti che giovedì mattina hanno salutato la comitiva, attivando canali personali sono riusciti in breve tempo a trovare una ricollocazione che li sottraesse finalmente al purgatorio dei “non iscritti”. E così, già ieri, il gruppo dei Verdi s’è riunito in assemblea e ha approvato l’ingresso degli ex grillini, che hanno così potuto lasciare quel fritto misto in cui a Bruxelles macerano nell’irrilevanza i partiti che non hanno né casa né protezione in nessuna delle grandi famiglie. “In effetti la voglia di uscire da questo limbo per noi era fortissima”, dice Ignazio Corrao, uno dei quattro secessionisti. E a tal punto assillante doveva essere quest’ansia di redenzione che, pur di essere ammessi tra i Verdi, Corrao, e insieme a lui Piernicola Pedicini, Eleonora Evi e Rosa D’Amato hanno sottoscritto un documento in cui rinnegano tutto: l’appartenenza al M5s, la vicinanza a Di Battista, la sudditanza a Casaleggio. Il che, per chi è uscito dal Movimento gridando contro il tradimento dei valori primigeni, ha un che di bizzarro. Ma la politica, si sa, impone le sue ipocrisie.

 

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E in fondo è proprio l’assenza di politica, che quelli che sono rimasti lamentano.  E la imputano, questa inerzia, ai vertici romani del M5s. Che poi, a bene vedere, non si capisce neppure bene chi siano. Perché da un lato c’è Luigi Di Maio, che l’ipotesi forse più percorribile e più gradita al gruppo europeo, non vuole prenderla granché in considerazione. Perché intavolare una trattativa per entrare nel Pse, secondo il ministro degli Esteri, significherebbe farsi portare a battesimo dai padrini del Pd, quei compagni di governo che inevitabilmente, in cambio di questa cortesia, chiederebbero delle contropartite non ancora quantificabili. E poi, quand’anche l’operazione si compisse davvero, il M5s resterebbe succube del Pd nelle dinamiche europee, all’ombra del fu “partito di Bibbiano”, e con scarsa autonomia di manovra.

 

Per questo Di Maio continua a preferire l’opzione di Renew, i liberali di Emmanuel Macron. E anche qui, certo, passare dagli omaggi ai gilet gialli ai salamelecchi al presidente francese, avrebbe un che di surreale. E però se dalla Farnesina, il mese scorso, è filtrata una certa insofferenza nei confronti del ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli e del suo vice Stefano Buffagni per l’emendamento “salva-Mediaset”, che ha azzoppato la scalata di Vivendi sul Biscione, lo si deve anche al timore che Di Maio aveva per una possibile incrinatura dei rapporti con le cancellerie transalpine che lui sta faticosamente ricostruendo. E dunque l’ex capo politico continua a insistere  che un gruppo europeo ci vuole, che “il M5s non può continuare a non avere una grande famiglia politica di riferimento”.

 

Ma lo dice quasi col gusto di assegna una rogna a un rivale. Che forse, a bene vedere, sarebbe quel Vito Crimi che lo ha succeduto alla guida del M5s, e che tuttavia, da reggente sempre periclitante, impantanato com’è nelle eterne gazzarre interne, si guarda bene dal poggiare lo sguardo sullo scacchiere internazionale. “E insomma noi siamo qui”, sbuffano a Bruxelles, “che attendiamo di capire chi e quando verrà eletto il nuovo organo direttivo del M5s, perché solo allora si potrà trattare davvero con le controparti”.

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E nel frattempo, ovviamente, bisogna vivacchiare, fare buon viso a cattivo gioco. Ieri, ad esempio, da esponenti di governo del M5s non sono mancate le telefonate d’elogio verso  Castaldo, che  da rappresentante del grillismo dal volto umano, s’è esposto fino a dichiarare che sì, la riforma del Mes può essere votata. Perciò da Roma, nel delirio generale verso il voto di mercoledì,  sono arrivati i ringraziamenti, a lui e al suo staff. E loro li hanno accettati, certo. Ma magari si aspettano che, insieme alle felicitazioni, arrivassero pure buone notizie sullo stato dell’arte delle trattative col Pd per l’entrata nel Pse, o magari con chi di dovere per l’ingresso in Renew. Ma niente, a quel punto i colloqui s’interrompevano subito.
 

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