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Miliardi nel limbo

Sul recovery, il Pd teme più i veti in maggioranza che quelli in Europa

Valerio Valentini

Chi tiene il filo? Il problema non sono i tempi ma la lista della spesa e l’anima da trovare. I dubbi sui comitati che dovranno controllare sui progetti: tecnici o politici? Tutti i nodi da risolvere

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L’ansia per il ritardo accumulato, a dire il vero, non c’era. Nella riunione che due giorni fa ha visto seduti intorno a un tavolo Giuseppe Conte coi ministri Enzo Amendola e Roberto Gualtieri, la discussione è stata semmai scandita dalla preoccupazione di non accumularne in futuro, di rallentamenti. Perché nessuno degli stati membri ha finora presentato alla Commissione i Piani nazionali di riforma previsti dal piano Next generation Eu, e tra i quattro che hanno voluto forzare i tempi per consegnare in fretta le linee guida, un paio si sono già visti rimandare indietro delle correzioni da Bruxelles. L’Italia per ora ha scelto un’altra strada: quella dei dialoghi informali.

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L’ansia per il ritardo accumulato, a dire il vero, non c’era. Nella riunione che due giorni fa ha visto seduti intorno a un tavolo Giuseppe Conte coi ministri Enzo Amendola e Roberto Gualtieri, la discussione è stata semmai scandita dalla preoccupazione di non accumularne in futuro, di rallentamenti. Perché nessuno degli stati membri ha finora presentato alla Commissione i Piani nazionali di riforma previsti dal piano Next generation Eu, e tra i quattro che hanno voluto forzare i tempi per consegnare in fretta le linee guida, un paio si sono già visti rimandare indietro delle correzioni da Bruxelles. L’Italia per ora ha scelto un’altra strada: quella dei dialoghi informali.

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E non sono andati male, finora, se è vero che i confronti tra gli staff tecnici dei ministeri romani coinvolti nel Recovery e i consulenti di Ursula von der Leyen hanno già portato a un risultato incoraggiante. Perché il primo progetto che dovrà essere finanziato dal Recovery, inserito già nella legge di Bilancio, ha ricevuto dalla Commissione il massimo del punteggio. Per la gioia di Stefano Patuanelli, il ministro grillino dello Sviluppo che potrà vedersi finanziato, fino a fine 2022, il suo piano di Transizione 4.0 con le risorse che arriveranno dal fondo europeo: 24 miliardi di grants che, stando agli auspici del Mise, dovrebbero generare quasi 380 miliardi di investimenti privati nel rinnovo di macchinari e infrastrutture aziendali.

  

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Meno felice è forse stato Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza, grillino pure lui, che invece dovrà pazientare per avere la garanzia dei 13 miliardi e rotti che serviranno per prolungare il suo superbonus edilizio per tutto il 2022, misura anche questa ben vista dalla Commissione seppur con qualche riserva. Insomma, non è la presentazione dei progetti che preoccupa: tanto più che i veti ungheresi e le impuntature polacche di queste settimane faranno slittare ancora la scadenza per l’invio definitivo dei dossier, prevista ora non prima di febbraio (e anche in questo il sostegno di Giorgia Meloni al suo amico Viktor Orbán sa di paradossale: di fatto, la leader di FdI sta contribuendo a concedere più tempo al governo italiano che vorrebbe tanto veder annaspare).

 

Il problema, semmai, sta nella definizione della governance: è su questo che, da giorni, il premier e il titolare degli Affari Europei, Amendola, si stanno interrogando. Bisogna stabilire, cioè, chi sovrintenderà all’attuazione dei vari progetti, chi vigilerà sul rispetto dei tempi e interverrà in caso d’impantanamento dei cantieri, e sulla base di quali norme. L’auspicio era di provvedere con un capitolo della legge di Bilancio: e invece, alla fine, in manovra c’è finita solo la parte che riguarda il monitoraggio finanziario, assegnato al Mef e alla Ragioneria che potranno disporre di una gestione di fondi fuori bilancio da destinare ai vari progetti, col vice capo di gabinetto di Gualtieri, Stefano Scalera, già precettato. Dal punto di vista normativo, invece, verosimilmente si dovrà attendere – a meno d’improbabili interventi emendativi alla legge di Bilancio – un nuovo provvedimento ad hoc a gennaio, una sorta di “Supersemplificazioni” che disporrà una procedura chiara per l’individuazione dei soggetti attuatori (che si attiveranno al termine di un processo che coinvolgerà anche il Parlamento e la Conferenza delle regioni) dotandoli di specifiche norme agevolate sia sui tempi di attesa sia sui possibili veti burocratici. Poi bisognerà definire anche un ente di monitoraggio, che vigili sul rispetto del cronoprogramma e che intervenga, con poteri di deroga, in caso di ritardi. E qui, forse, verranno i problemi. Nel senso che andrà risolto uno scontro latente, tutto politico, sulla fisionomia del comitato.

 

A Palazzo Chigi si pensa a un gruppo ristretto di esperti, ciascuno con competenze specifiche per i sei diversi campi d’azione del Recovery: dei controllori, insomma, che potranno agire in base a normative agevolate che per certi versi ricordano quelle del piano Expo. In alcuni dicasteri, invece, preferirebbero mantenere questa funzione di monitoraggio dentro le stesse strutture ministeriali. Al Mise, ad esempio, sono già stati mobilitati, per questo compito, il senior advisor Elio Catania, già presidente di Confindustria digitale, e Daniel De Vito, uno dei “Di Maio boys” ora a capo della segreteria tecnica di Patuanelli. Ci sarà da discutere: purché lo si faccia in fretta. Ché i ritardi non ci sono, ma il rischio d’impaludarsi è sempre incombente.

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