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Cancellare la demagogia sul debito

Lorenzo Bini Smaghi

La proposta della cancellazione del debito contratto dai singoli paesi nei confronti dell’Ue è la migliore idea per affossare il Next Generation Eu e rimettere in discussione l’euro

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Nonostante l’incertezza generale provocata dal Coronavirus, una cosa è certa: il debito pubblico aumenterà, in tutti i paesi. E’ difficile sapere di quanto, perché non si conosce ancora né la durata della crisi né l’intensità della successiva ripresa economica. La domanda fondamentale è se il debito sarà sostenibile nel tempo, ossia se sarà possibile rifinanziarlo senza che si creino tensioni sui mercati finanziari e senza dover fare aggiustamenti di bilancio eccessivamente restrittivi. La risposta alla domanda è in linea di principio abbastanza semplice, come ho spiegato nell’articolo sul Foglio del 20 giugno scorso (“Bufale da evitare per rendere sostenibili debiti insostenibili”).

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Nonostante l’incertezza generale provocata dal Coronavirus, una cosa è certa: il debito pubblico aumenterà, in tutti i paesi. E’ difficile sapere di quanto, perché non si conosce ancora né la durata della crisi né l’intensità della successiva ripresa economica. La domanda fondamentale è se il debito sarà sostenibile nel tempo, ossia se sarà possibile rifinanziarlo senza che si creino tensioni sui mercati finanziari e senza dover fare aggiustamenti di bilancio eccessivamente restrittivi. La risposta alla domanda è in linea di principio abbastanza semplice, come ho spiegato nell’articolo sul Foglio del 20 giugno scorso (“Bufale da evitare per rendere sostenibili debiti insostenibili”).

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La sostenibilità del debito dipende dalla relazione tra il livello del tasso d’interesse sui titoli del debito pubblico e la crescita dell’economia. Se l’economia di un paese cresce ad un ritmo (nominale, ossia crescita reale più inflazione) superiore al tasso d’interesse sul debito pubblico, non ci sono problemi e il debito tenderà a calare nel tempo, in rapporto al reddito nazionale. Se invece la crescita è inferiore al tasso d’interesse, è necessario generare un surplus di bilancio pubblico – il così detto avanzo primario, cioè al netto degli interessi – per portare il debito su una traiettoria sostenibile. In altre parole, più elevato è il tasso di crescita tendenziale dell’economia, meno austerità di bilancio sarà necessaria per rendere il debito sostenibile. Esaminando i dati degli ultimi venti anni, prima della crisi del Coronavirus, non dovrebbero esserci troppi problemi per i debiti dei paesi europei. Con una eccezione: l’Italia. Nella media degli ultimi venti anni l’Italia è cresciuta ad un ritmo inferiore al livello degli interessi pagati sul proprio debito. Nonostante gli avanzi primari ripetuti, anno dopo anno, il debito pubblico italiano non è sceso in rapporto al prodotto lordo. Questo è il motivo per cui il debito pubblico italiano era fonte di preoccupazione prima del Coronavirus, e continuerà ad esserlo dopo. Il tema è noto, è stato esaminato in lungo e in largo dagli istituti di ricerca pubblici e privati.

 

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L’Italia soffre per una crescita troppo bassa, per colpa delle rigidità strutturali che non sono mai state affrontate fino in fondo. La produttività media per addetto è inferiore a quella di 25 anni fa. Per aumentare il potenziale di crescita dell’economia è necessario fare riforme, nei settori nei quali i governi dell’ultimo ventennio hanno preso ripetuti impegni, senza tuttavia mai portarli a termine. Fare le riforme è politicamente costoso. E non vi è la leadership capace di metterle in atto. L’assenza di leadership fa regolarmente riemergere nel dibattito pubblico italiano alcune idee apparentemente geniali, come la cancellazione del debito. La proposta è di nuovo spuntata di recente, con una argomentazione apparentemente attraente. Il Coronavirus è come una guerra mondiale. Ha creato una crisi tale da richiedere ai paesi europei l’emissione di una ingente quantità di debito pubblico per sostenere l’economia. Rappresenta tuttavia un fardello eccessivo. Come dopo ogni guerra, una parte del debito pubblico andrà dunque, in un modo o nell’altro, ridotto.

 

Il problema di questa proposta è che il debito di qualcuno rappresenta, per definizione, il credito di qualcun altro. Nel caso italiano, oltre il 70 per cento del debito pubblico è direttamente o indirettamente detenuto da residenti, ossia dai risparmiatori italiani, assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione o banche. Una cancellazione del debito pubblico che riduce il valore dei titoli di stato comporterebbe una riduzione del valore dei risparmi degli italiani, che non ne sarebbero certo felici. L’impatto sull’economia sarebbe devastante. Una cancellazione generalizzata non è dunque possibile. Da qui nasce la proposta, apparentemente più sofisticata, di cancellare il debito solo nei confronti di alcuni debitori, possibilmente non italiani. In questa linea si inserisce l’appello che è stato fatto da alcuni esponenti politici all’Europa di fare scelte forti e coraggiose, come quella di cancellare i debiti dovuti alla pandemia, “perché non è accettabile che ricadano sui cittadini e sulle generazioni future”. Escludendo i debiti dello stato nei confronti dei residenti italiani, per gli effetti negativi ricordati sopra, si potrebbero cancellare quelli nei confronti delle istituzioni europee. Si possono distinguere al riguardo due scenari. Una prima possibilità sarebbe quella di cancellare i debiti che l’Italia ha già contratto, o contrarrà, con l’Unione europea per far fronte alla crisi pandemica nell’ambito del Next Generation EU.

 

L’Italia ha già tirato 10 dei 27 miliardi di euro del programma SURE per finanziare la Cassa integrazione. Riceverà inoltre prestiti dall’Unione europea per finanziare gli interventi del Next Generation EU, per altri 130 miliardi di euro. Questi debiti potrebbero essere abbonati all’Italia, trasformandoli interamente in doni. La cancellazione dei debiti, o la loro trasformazione in doni, significherebbe che l’Unione europea non avrebbe più una copertura finanziaria per le emissioni di titoli sul mercato che ha dovuto effettuare per poter reperire i fondi erogati agli stati membri. In questo caso ci sarebbero due possibili soluzioni. La prima sarebbe quella di aumentare i contributi dei paesi membri, inclusa l’Italia, attraverso il bilancio comunitario. Non ci sarebbe allora una vera e propria cancellazione del debito ma piuttosto un rimborso differito nel tempo. La seconda soluzione sarebbe che l’Europa cancelli a sua volta i debiti nei confronti dei propri creditori, in altre parole faccia default sui mercati finanziari. Non è difficile capire che questa proposta, soprattutto fatta ancor prima che venga concluso il negoziato del Next Generation EU, produce come effetto di aumentare il rischio dei titoli emessi dall’Unione europea per finanziare il programma di rilancio.

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Se gli operatori finanziari cominciano a temere la cancellazione del debito da parte dell’Unione, o del contributo di uno dei suoi stati membri, il tasso d’interesse sul debito comune europeo aumenterebbe notevolmente, rendendo l’intero programma meno appetibile, soprattutto per i paesi più virtuosi. In sintesi, se si voleva affossare il Next Generation EU, non si poteva scegliere proposta migliore di quella della cancellazione del debito contratto dai singoli paesi nei confronti dell’Unione europea. Una seconda possibilità sarebbe quella di cancellare i debiti pubblici detenuti dalla Banca centrale europea, in virtù della politica di acquisto di titoli di stato messa in atto dall’inizio della pandemia, in particolare il Pandemic Emergency Purchase Program per circa 1350 miliardi di euro. Il ragionamento sottostante è semplice.

 

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Dato che la Bce acquista titoli di stato dei paesi membri, in cambio di moneta di banca centrale, ma al contempo retrocede gli interessi sui tali titoli agli stessi paesi membri, che sono azionisti indiretti della Bce attraverso le banche centrali nazionali, si tratta in fin dei conti di una partita di giro. Le banche centrali fanno parte del settore pubblico, pertanto una cancellazione dei titoli pubblici nel loro bilancio non creerebbe nessun problema. Consentirebbe invece di ridurre lo stock di debito pubblico complessivo, rendendolo più sostenibile. Sembra l’uovo di Colombo. Ma non lo è. Cominciando da alcuni aspetti pratici. La cancellazione del debito non può essere decisa dagli stati, poiché non è possibile trattare diversamente i vari creditori. Il debitore non può cancellare il proprio debito nei confronti di alcuni e non di altri. Verrebbe immediatamente portato in giudizio, che inevitabilmente perderebbe. La cancellazione dovrebbe dunque essere decisa dal creditore, in questo caso dalla Bce. Qui iniziano i problemi. La Bce non può cancellare i crediti nei confronti di uno stato, perché ciò violerebbe il Trattato dell’Unione europea, in particolare l’articolo 123, e il suo statuto (art 21) che vieta il finanziamento monetario degli stati membri. Ovviamente i trattati possono essere cambiati, con la volontà di tutti gli stati membri.

 

Sembra tuttavia difficile non solo trovare l’unanimità per tale cambiamento ma individuare un solo stato membro che sarebbe disposto a seguire l’Italia su questa via. Il motivo è semplice. Un tale cambiamento del trattato comporterebbe la fine dell’indipendenza della banca centrale europea, che non sarebbe più in grado di emettere moneta in funzione di un obiettivo definito, come la stabilità dei prezzi dell’intera unione, ma diventerebbe soggetto alle esigenze di finanziamento dei bilanci pubblici nazionali. Ciò significherebbe che la moneta verrebbe emessa non ai fini di assicurare la stabilità monetaria ma diventerebbe uno strumento fiscale.

 

Ogni paese userebbe la Bce come un bancomat, emettendo debito a suo piacere che verrebbe poi acquistato dalla Bce e in seguito cancellato. Non è difficile capire che la proposta di modificare il trattato per consentire la cancellazione del debito non è compatibile con l’assetto politico e istituzionale sottostante all’unione monetaria. Sarebbe la fine dell’euro. Forse è quello che, consciamente o inconsciamente, desiderano i fautori di tale proposta. La proposta non è coerente nemmeno dal punto di vista dell’analisi economica. L’acquisto di titoli di stato è uno strumento che la banca centrale usa per aumentare la quantità di moneta nel sistema. Questo avviene in particolare se l’inflazione è inferiore all’obiettivo considerato compatibile con la stabilità dei prezzi, ossia il 2 per cento. È quello che è successo in questi anni. A fronte di una crescita economica lenta e di un eccesso di risparmio, la Bce ha acquistato titoli di debito pubblico dei paesi membri per creare moneta e mantenere i tassi di interesse su livelli bassi, o addirittura negativi. La Bce ha incrementato l’acquisto di titoli pubblici per far fronte alla crisi pandemica.

 

La decisione di acquistare o meno titoli di stato e di creare moneta aggiuntiva è nelle mani della banca centrale, in funzione dell’evoluzione dell’inflazione. Se l’inflazione rimane bassa, la Bce può decidere di comprare lo stesso ammontare di titoli di quelli che scadono oppure di comprarne di più. Se l’inflazione invece aumenta, la Bce può decidere di non rinnovare la quantità di titoli in scadenza (come ha fatto la Riserva federale americana alla fine del 2014) o addirittura di venderli per ridurre la moneta in circolazione. Se la Bce decidesse di cancellare i titoli di stato dei paesi membri detenuti a bilancio, ad esempio trasformandoli in titoli irredimibili, si produrrebbe innanzitutto una perdita in conto capitale. Poco male, si potrebbe obiettare, le banche centrali non hanno bisogno di capitale per poter operare. Tuttavia, con la cancellazione dell’attivo della banca centrale, si congela di fatto anche il passivo, ossia la quantità di moneta di banca centrale già immessa nel sistema. Avendo cancellato i titoli di debito pubblico, la banca centrale non può più venderli per ridurre la quantità di moneta in circolazione. Una volta finita la pandemia e ripresa l’attività economica, la banca centrale potrebbe voler ridurre la quantità di moneta nel sistema e aumentare i tassi d’interesse per tenere sotto controllo l’inflazione. Non potrebbe tuttavia farlo se non ha a disposizione nel suo bilancio i titoli che ha acquistato nel tempo per creare quella base monetaria. La banca centrale potrebbe cercare di ridurre la quantità di base monetaria con altri strumenti.

 

Potrebbe ad esempio vendere titoli privati, deprimendone il valore, oppure emettere titoli propri, come i certificati di deposito, il che comporterebbe tuttavia un costo (in termine di tassi d’interesse) difficilmente sostenibile data la cancellazione dei titoli in possesso e del loro rendimento. Un’altra alternativa sarebbe quella di aumentare le riserve che devono detenere le banche sotto forma di deposito presso la banca centrale. Tuttavia, tali riserve vanno remunerate, e anche in questo caso si pone il problema del costo per la banca centrale, che si tradurrebbe in minori ricavi da distribuire agli azionisti, ossia agli stati membri. Se la banca centrale non è in grado di ridurre la quantità di moneta emessa nel sistema quando lo ritiene necessario, quell’eccesso di moneta si tradurrà, prima o poi, in maggior inflazione. Più elevato è l’eccesso di moneta derivante dalla cancellazione del debito, più elevata sarà l’inflazione. In sintesi, la cancellazione del debito detenuto dalla banca centrale non comporta alcun vantaggio nell’immediato.

 

Quando un titolo arriva a scadenza, la banca centrale ne può acquistare un altro disponibile sul mercato, per l’ammontare equivalente, retrocedendo l’interesse agli stati. Questo è quello che ha fatto la Bce in questi anni, e che ha annunciato continuerà a fare per vari anni. Comporta invece notevoli problemi per il controllo monetario una volta finita l’emergenza, con il rischio che l’eccesso di liquidità creata non possa essere riassorbito, facendo salire l’inflazione ben oltre l’obiettivo. In questo caso il costo della cancellazione del debito verrebbe pagato dai risparmiatori e dai percettori di reddito fisso. L’idea che la banca centrale possa cancellare il debito pubblico che detiene non è solo una pia illusione, è una concezione profondamente errata del ruolo che deve svolgere la moneta. Questo non è un punto di vista esclusivamente europeo, che è alla base dei trattai istitutivi dell’Unione, ma pienamente condiviso nei paesi avanzati, come ha ricordato ad esempio il Presidente della Riserva federale americana, Jerome Powell, in un suo recente discorso alla Brookings Institution (“Covid-19 and the Economy”, 9 Aprile 2020), “La Fed non è autorizzata a concedere denaro a particolari beneficiari. La Fed può concedere prestiti garantiti solo ad entità solvibili con l’aspettativa che tali prestiti siano completamente rimborsati”.

 

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