PUBBLICITÁ

Uno, nessuno e centomila: il M5s in Europa ci prova con tutti e non riesce con nessuno

Valerio Valentini

Di Maio vagheggia l’accordo col Ppe. Ma a Bruxelles i suoi guardano a Socialisti e Verdi. E nel frattempo il gruppo salta per aria. Il dramma di un partito senza identità

PUBBLICITÁ

Se avesse un senso dell’ironia brillante almeno la metà di quello che va di moda a Pomigliano, Günther Oettinger posterebbe forse una foto della sua faccia sorridente e un piatto con su scritto: “Qui Bruxelles. Questa Giggino se la sogna”. Solo che dentro al piatto anziché la pizza – quella margherita che l’allora vicepremier Luigi Di Maio, invidioso dei post magnerecci del compare Matteo Salvini, gli mostrò su Instragram per dimostrargli la superiorità dello spirito italico – ci starebbe il simbolo del Ppe.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Se avesse un senso dell’ironia brillante almeno la metà di quello che va di moda a Pomigliano, Günther Oettinger posterebbe forse una foto della sua faccia sorridente e un piatto con su scritto: “Qui Bruxelles. Questa Giggino se la sogna”. Solo che dentro al piatto anziché la pizza – quella margherita che l’allora vicepremier Luigi Di Maio, invidioso dei post magnerecci del compare Matteo Salvini, gli mostrò su Instragram per dimostrargli la superiorità dello spirito italico – ci starebbe il simbolo del Ppe.

PUBBLICITÁ

 

Perché ora, dopo aver sbeffeggiato l’ex commissario tedesco al Bilancio, dopo aver dato dell’ubriacone all’allora presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e aver ingiuriato Angela Merkel (salvo poi vantarsi di averne ricevuto dei complimenti), dopo aver insomma condannato per anni i vertici del Ppe, ora è proprio con loro che l’ex capo del M5s vorrebbe stringere un patto. E infatti, a leggere della tentazione dei suoi eurodeputati di voler entrare nel Pse, alla Farnesina ci tengono subito a ribaltare tutto: “Ché noi, semmai, un passo avanti lo abbiamo fatto verso i popolari”.

 

PUBBLICITÁ

D’altronde, quello del M5s in Europa è un po’ un dramma pirandelliano dell’identità mancata. Di chi, insomma, negandosi ogni profilo politico, camuffando i propri connotati, s’illude di essere compatibile un po’ con tutti, a seconda dei casi. E così, dopo essere stati con gli estremisti antieruopeisti dell’Ukip di Nigel Farage, a un certo punto della scorsa legislatura la pattuglia grillina pensò bene di tentare l’approccio col più europeista dei gruppi presenti in Parlamento, e cioè l’Alde, che infatti rigettò le avances.

 

Si capì allora che arrivare a Bruxelles senza una famiglia di appartenenza, finendo nel fritto misto dei “non iscritti”, era un rischio da scongiurare. E allora Di Maio, in vista delle nuove elezioni europee del 2019 attivò tutti i suoi canali diplomatici in giro per il continente e alla fine assemblò una coalizione composta da: il partito polacco Kukiz fondato da un ex cantante punk di estrema destra; il movimento croato Zivi Zid, di sinistra radicale e convintamente antieuropeista; il partito greco Akkel, che era di estrema destra come Kukiz e antieuropeista come Zivi Zid; il partito finlandese Liike Nyt, liberal conservatore e ultraeuropeista, diverso da tutti gli altri. Incomprensibilmente, il M5s si ritrovò senza alleati eletti al Parlamento europeo, e finì così nel gruppo dei “non iscritti”.

 

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Di lì iniziò una via crucis tra le varie delegazioni, con l’unico obiettivo di trovare qualcuno che ci stesse. E così ci si è provato coi Verdi, e non è andata a buon fine. E allora si è tentato con Renew Europe, il gruppo guidato dai francesi di En Marche, il partito di quell’Emanuel Macron che appena pochi mesi prima del voto s’era visto il vicepresidente del Consiglio italiano Di Maio e i suoi europarlamentari andare in pellegrinaggio dai gilet gialli, e perciò aveva ritirato l’ambasciatore francese da Roma, una roba che non si vedeva dai tempi della Seconda guerra mondiale.

 

PUBBLICITÁ

E nel frattempo, fatalmente, le tensioni e gli sbandamenti continui finirono col produrre, nel gruppo degli eurodeputati, una frattura insanabile: con dieci esponenti schierati sul fronte europeista e quattro irriducibili duropuristi. E quando, a novembre 2019, ci fu la seconda votazione in sostegno della commissione Von der Leyen, il M5s riuscì a esprimere tutte le posizioni possibili: dieci a favore, due contro e due astenuti. Nel dubbio, qualcuno c’avrebbe comunque azzeccato.

 

Ora, però, Di Maio insiste. “Bisogna collocare chiaramente il M5s in una famiglia europea”, sentenzia, senza specificare quale sia la “famiglia”. E così, nella vaghezza della strategia, la tattica diventa schizofrenica. E mentre a Bruxelles si tesse la tela rossogialla che porterebbe il M5s nel Pse, a Roma Di Maio vagheggia accordi coi popolari. “Noi nel gruppo di Berlusconi? Suvvia”, sogghignano però i suoi a Bruxelles. Dove, nel frattempo, la trattativa coi Verdi, e cioè la prima tentata, non è del tutto tramontata. “Dopo gli Stati generali, se chiariremo la nostra struttura e il nostro programma, forse ci accetteranno”, dicono i grillini di Bruxelles.

 

Anche perché, dopo gli Stati generali, il gruppo potrebbe definitivamente spaccarsi (ieri i quattro euroscettici, capitanati da Ignazio Corrao e Nicola Pedicini, hanno firmato un documento di dissidenza in sostegno di Dibba). E a quel punto il veto dei tedeschi, che non gradivano una nuova componente così numerosa nel gruppo, potrebbe decadere. Sempreché, nel frattempo, il dramma pirandelliano del M5s si risolva, e i grillini capiscano che rifiutare qualsiasi identità nell’illusione di rendersi compatibili con tutti finisce in verità col portarti a non essere gradito a nessuno.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ