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Tra Calenda e Zingaretti si mette sempre peggio, e un po’ c’entra la Raggi

Simone Canettieri

Contro il leader di Azione si prepara una batteria di dichiarazioni del Pd. Mentre il processo d'Appello della sindaca viene rimandato

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Roma. Succede di tutto, come sempre, ma alla fine non succede quasi niente di decisivo. La Roma città aperta all’ultimo Dpcm si sveglia con la sindaca Virginia Raggi in tribunale per il solito processo Marra e con l’unico, per il momento, sfidante di peso, Carlo Calenda, che si azzanna con mezzo Pd, locale, regionale e nazionale. Un lunedì bizzarro che è destinato a ripetersi, e chissà per quanto. E che alla fine raggiunge vette impensabili quando il leader di Azione, che sogna il Campidoglio al motto “chi mi ama mi segua”, dice che la grillina, in fin dei conti, “non è il male assoluto” e che Gianni Alemanno ha fatto molti più danni. Dichiarazioni che rimbalzano nell’Aula Europa della corte di Appello della Capitale, edificio ottagonale, che sembra un piccolo centro commerciale di provincia, posto alla fine della cittadella giudiziaria. E allora cadono tutte le certezze delle sparute truppe raggiane presenti, pronte a tirar fuori stecche di cioccolata Kit Kat e bottigliette d’acqua per la loro eroina imputata. “Ma che davvero? Davvero Calenda ha detto così?”.

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Roma. Succede di tutto, come sempre, ma alla fine non succede quasi niente di decisivo. La Roma città aperta all’ultimo Dpcm si sveglia con la sindaca Virginia Raggi in tribunale per il solito processo Marra e con l’unico, per il momento, sfidante di peso, Carlo Calenda, che si azzanna con mezzo Pd, locale, regionale e nazionale. Un lunedì bizzarro che è destinato a ripetersi, e chissà per quanto. E che alla fine raggiunge vette impensabili quando il leader di Azione, che sogna il Campidoglio al motto “chi mi ama mi segua”, dice che la grillina, in fin dei conti, “non è il male assoluto” e che Gianni Alemanno ha fatto molti più danni. Dichiarazioni che rimbalzano nell’Aula Europa della corte di Appello della Capitale, edificio ottagonale, che sembra un piccolo centro commerciale di provincia, posto alla fine della cittadella giudiziaria. E allora cadono tutte le certezze delle sparute truppe raggiane presenti, pronte a tirar fuori stecche di cioccolata Kit Kat e bottigliette d’acqua per la loro eroina imputata. “Ma che davvero? Davvero Calenda ha detto così?”.

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Intanto, la sindaca di nero vestita con mascherina a fiori avana è di nuovo qui, in tribunale, per il ritorno, di una partita vinta all’andata con l’assoluzione. L’appello è un terno al lotto, e quindi potrebbe terminare subito. Così ci sono ben due operatori video del Campidoglio per registrare il messaggio da mettere su Instagram e Facebook in caso di assoluzione. Ma non finisce così. E allora “hanno già parlato i miei avvocati”, dice Raggi, un po’ stizzita, quando alle 13.30 solca i corridoi vuoti del tribunale, con tutto il codazzo al seguito: la scorta, la comunicazione, il marito Andrea Severini (in tenuta da biker metropolitano: i due si salutano dandosi il gomito), un temerario consigliere comunale (Paolo Ferrara) e lo staff della comunicazione. Più uno stuolo di avvocati, compreso Andrea Ciannavei, legale del M5s che a sua volta sta finendo a carte bollate. Dunque prossima udienza il 26 novembre. Perché i giudici hanno accolto la richiesta di sentire due testimoni (Fabrizio Belfiori, ex segretario particolare di Raggi, e l’assessore Antonio De Santis, all’epoca dei fatti delegato al personale). Anche se la procura generale ne voleva sentire tre in più. Di fatto il processo sulla nomina di Renato Marra, fratello dell’ex rasputin comunale continua. Eppure uno si immagina che con una pandemia in corso, il giorno dopo un Dpcm, la sindaca della Capitale stia attaccata al telefono con il Viminale, la Protezione civile, Palazzo Chigi per capire come chiudere il Pigneto o Trastevere in caso di assembramenti. Invece, no, si sta qui, ben distanziati a parlare di “chat” e “Codice etico del M5s”, prove documentali inconfutabilissime.

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Raggi è imputata per falso. In caso di condanna, “per noi non cambierà nulla”, dicono i suoi. Anche se gli altri “suoi”, cioè i big del partito pentastellato, che tanto “suoi” non sono affatto, vorrebbero che facesse come Chiara Appendino a Torino: un passo di lato, ottimo viatico con un accordo con il Pd. Ma è un’ipotesi che qui non si prende nemmeno in considerazione. “Calenda? Andrebbe preso a schiaffi”, dice Dario Tamburrano, ex europarlamentare M5s, non rieletto. “Sono tornato a fare il dentista, ma ho vinto anche un bando europeo. Sono stato fatto fuori perché io lavoravo e gli altri no: come Calenda, appunto”, confida. I grillini presenti in Corte d'Appello per esorcizzare pensano al leader di Azione. E commentano: “Ci farà sognare”. In effetti in mattinata sfida Nicola Zingaretti (“dovrà sopportarmi”), dice no alle primarie (“non servono”) e si becca l’endorsement di Lapo Elkann (“sei il migliore”). E intanto il Pd si scatena con una batteria di dichiarazioni contro di lui: da Andrea Orlando ad Andrea Casu, passando per l’ultimo consigliere municipale. L’accordo è lontano, insomma. E anche da Italia viva, non proprio un succursale del Pd, ammettono che “Carlo è partito male: il Pd lo vuole isolare e fargli scaricare le pile, vedremo”. Nel frattempo, il processo di Raggi è stato rinviato. Alla prossima puntata del Codice etico, vostro onore.

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