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What a Mes

Due settimane per non chiudere l’Italia

"Se la curva non si piegherà sarà inevitabile dover prendere soluzioni drastiche", dice Alessio D’Amato

Claudio Cerasa

Fino a quando sarà possibile governare la seconda ondata con misure soft? La resistenza del sistema sanitario passa da positivi, indice di contagio, ricoveri ordinari e tamponi. Parla il braccio destro di Zingaretti alla regione (e ha qualcosa da dire a Conte sul Mes)

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"Noi andiamo un po’ meglio e abbiamo ancora un mesetto di margine. Ma per il resto occorre dire la verità: a livello nazionale abbiamo due settimane di tempo per piegare la curva, e se entro due settimane la curva non si piegherà sarà inevitabile dover prendere soluzioni drastiche: è ovvio che non si può fare un dpcm ogni settimana”. Il telefono dell’assessore Alessio D’Amato squilla alle quindici di lunedì pomeriggio, poche ore prima del consueto appuntamento con i numeri della pandemia. I dati di ieri sono nuovamente poco incoraggianti – più quattro morti rispetto al giorno prima, in tutto settantatré; più 545 persone ricoverate fino al giorno prima; più 47 persone in terapia intensiva; meno 2.367 casi rispetto al giorno prima ma a fronte di 47 mila tamponi in meno effettuati – ma non ci aiutano a rispondere alla domanda che tutti si sono posti domenica sera ascoltando l’ipnotica conferenza stampa di Giuseppe Conte: fino a quando sarà possibile governare solo con misure soft l’ondata di ritorno della pandemia? E soprattutto: quali sono i numeri, i parametri, le proiezioni e le percentuali che dovremmo osservare con attenzione nelle prossime ore per capire se qualcosa non sta funzionando come dovrebbe funzionare?

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"Noi andiamo un po’ meglio e abbiamo ancora un mesetto di margine. Ma per il resto occorre dire la verità: a livello nazionale abbiamo due settimane di tempo per piegare la curva, e se entro due settimane la curva non si piegherà sarà inevitabile dover prendere soluzioni drastiche: è ovvio che non si può fare un dpcm ogni settimana”. Il telefono dell’assessore Alessio D’Amato squilla alle quindici di lunedì pomeriggio, poche ore prima del consueto appuntamento con i numeri della pandemia. I dati di ieri sono nuovamente poco incoraggianti – più quattro morti rispetto al giorno prima, in tutto settantatré; più 545 persone ricoverate fino al giorno prima; più 47 persone in terapia intensiva; meno 2.367 casi rispetto al giorno prima ma a fronte di 47 mila tamponi in meno effettuati – ma non ci aiutano a rispondere alla domanda che tutti si sono posti domenica sera ascoltando l’ipnotica conferenza stampa di Giuseppe Conte: fino a quando sarà possibile governare solo con misure soft l’ondata di ritorno della pandemia? E soprattutto: quali sono i numeri, i parametri, le proiezioni e le percentuali che dovremmo osservare con attenzione nelle prossime ore per capire se qualcosa non sta funzionando come dovrebbe funzionare?

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Di questi temi abbiamo scelto di parlare con Alessio D’Amato, che nella vita fa l’assessore alla Salute della regione Lazio e che è una delle persone più ascoltate su questi temi dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, che del Lazio è governatore, perché da giorni i bollettini quotidiani diffusi dall’Istituto superiore di sanità e dal ministero della Salute collocano la regione di Zingaretti e D’Amato in cima alle regioni con più pazienti ricoverati (a oggi sono 1.130, sei in meno rispetto alla Lombardia, che però ha 5 milioni di abitanti in più) e provare a capire cosa sta accadendo nel Lazio può aiutare forse a capire cosa potrà accadere in Italia. “Il Lazio – dice D’Amato – è una delle regioni che ospedalizzano di più per un principio di cautela e di precauzione e difatti siamo una delle regioni che, oltre ad avere il rapporto migliore tra numero di persone testate in correlazione al numero di abitanti, hanno anche il più basso tasso di letalità rispetto a questa malattia: 1,5 per cento. Ma parlare dei ricoveri è comunque giusto ed è molto importante perché concentrarsi su questo fronte ci aiuta a capire qual è un dato che dobbiamo monitorare per capire a che punto è la pandemia. Nel Lazio la situazione oggi è questa: ogni cento persone che entrano ce ne sono circa 40 che escono; allo stato attuale i posti letto occupati per i ricoveri sono pari al 40 per cento del totale, e oltre ai circa 1.000 ricoveri ci sono anche le 700 residenze assistite dedicate ai clinicamente guariti; la regione sta lavorando per raddoppiare queste disponibilità ma se si considera che il tempo di degenza medio, ripeto: medio, di un ricovero per Covid-19 è di due settimane non ci vuole molto a capire che con questo ritmo la nostra regione ha un mese di autonomia mentre il resto del paese nel complesso ha la metà dell’autonomia che abbiamo noi”.

 

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D’Amato dice che “una volta che i posti letto per i ricoveri sono pieni all’80 per cento si arriva a un punto di non ritorno toccato il quale non si possono non prendere misure drastiche”. Il numero offerto da Amato si affianca a un altro numero offerto la scorsa settimana al Foglio da Agostino Miozzo del Cts – “la situazione è sostenibile fino a quando l’indice di contagio, l’Rt, si trova sotto 1,5”. Si affianca a un altro numero confermato al Foglio dal ministero della Salute – “la soglia d’allarme oltre la quale non si può andare per le pre-terapie intensive è il 40 per cento dei posti occupati”. E si affianca a un altro numero messo nero su bianco ieri dal sottosegretario alla Salute Sandra Zampa secondo la quale, riprendendo una stima di Franco Locatelli, l’Italia ha una capacità di resistenza fino ai “600 mila casi positivi complessivi”. I paletti oltre i quali l’Italia non può dunque permettersi di governare la pandemia con misure tutto sommato soft sono dunque chiari, ma ciò forse merita di essere analizzato ancora, per inquadrare bene la fase che stiamo vivendo, riguarda un altro dettaglio non indifferente legato alla posizione offerta domenica sera da Giuseppe Conte sul futuro del Mes. E quando Conte sostiene di non aver bisogno della linea di credito del Mes dedicata alle spese sanitarie non commette solo un errore economico, come ricorda Luciano Capone, ma commette anche un errore politico, perché riconosce esplicitamente che i problemi di gestione sanitaria che esistono oggi in Italia non sono legati ai soldi che mancano ma sono legati a una certa forma di efficienza che purtroppo ancora non c’è.

 

E per provare ad affrontare il tema chiediamo all'assessore di Zingaretti se è vero oppure no che non è qualche soldo in più oggi a fare la differenza. “Ho sentito dire al presidente Conte che l’Italia non ha bisogno di attivare il Mes. Con umiltà direi che i problemi che abbiamo oggi sono legati prevalentemente ai soldi. Servono più soldi per fare quello di cui l’Italia ha urgentemente bisogno, ovverosia quadruplicare i tamponi, perché se è vero che per ogni positivo occorre tracciare almeno 25-30 persone, è ovvio che con 10 mila casi al giorno i tamponi minimi di cui avremmo bisogno sono almeno 300 mila, non 150 mila. E lo stesso vale per il personale sanitario e per gli anestesisti e per gli infermieri per non parlare dei tracciatori. Solo nel Lazio, per dire, oltre ai 600 tracciatori in più che avremo nel giro di poco tempo, avremmo bisogno di 2.400 figure in più. E se mi consente, dire, in una fase come questa, che non bisogna fare debito sulla sanità significa non aver bene chiaro in testa quello che è il vero tema che andrebbe capito: la sanità oggi non è un costo, è un volano ed è un grande investimento sul futuro dell’Italia. E purtroppo, lo dico con fiducia ma anche con preoccupazione, non c’è più molto tempo da perdere. Credetemi: abbiamo solo due settimane di tempo”.

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