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Goffredo Bettini, in confidenza

Carmelo Caruso

Una giornata a casa del “monaco” della sinistra italiana, che è anche l’ideologo di Zingaretti e l’uomo decisivo del Conte bis. La vita, i guai, la famiglia “a scacchi” e i figli che gli sono mancati. Il partito, Roma, i segreti della leadership

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Ed era dunque questo il potente ideologo? Era questa l’eminenza grigia del Pd? E dove sono i tesori di Goffredo Bettini? “Ho venduto la casa di famiglia. Ho avuto una casa bellissima. Me l’aveva lasciata mio padre. Non ho mai temuto la povertà. Oggi vivo della mia pensione che è un privilegio del quale ringrazio gli elettori e il mio partito. Vivo in questa casa, che oggi vede. Mi basta”. In una traversa del quartiere Prati, in un condominio dimesso di una casa che sembra una casa popolare, abita il “monaco” della sinistra italiana. Cercavamo l’uomo che ha fatto nascere il secondo governo Conte, inseguivamo la figura più potente di Roma, il pensatore che spiega il mondo a Nicola Zingaretti e invece abbiamo trovato un uomo in poltrona, in una stanza da letto che è la sua stanza pianeta. “E’ tutto qui. Non ho uffici, non ho un autista. Quello è il mio tavolo”.

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Ed era dunque questo il potente ideologo? Era questa l’eminenza grigia del Pd? E dove sono i tesori di Goffredo Bettini? “Ho venduto la casa di famiglia. Ho avuto una casa bellissima. Me l’aveva lasciata mio padre. Non ho mai temuto la povertà. Oggi vivo della mia pensione che è un privilegio del quale ringrazio gli elettori e il mio partito. Vivo in questa casa, che oggi vede. Mi basta”. In una traversa del quartiere Prati, in un condominio dimesso di una casa che sembra una casa popolare, abita il “monaco” della sinistra italiana. Cercavamo l’uomo che ha fatto nascere il secondo governo Conte, inseguivamo la figura più potente di Roma, il pensatore che spiega il mondo a Nicola Zingaretti e invece abbiamo trovato un uomo in poltrona, in una stanza da letto che è la sua stanza pianeta. “E’ tutto qui. Non ho uffici, non ho un autista. Quello è il mio tavolo”.

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La politica italiana, di destra e di sinistra, passa da un telefono Brondi ammaccato. “Pronto? Ciao Gianni”. Ed è Gianni Letta. “Caro Roberto, come stai?”. Ed è Roberto Gualtieri, il ministro dell’Economia. Ci apre la porta Gabriele, un ragazzo simpatico che ci schiaccia l’occhio (“Mi aiuta”) e poi ci riceve Fabrizio (“lavora con me da quasi 15 anni e non ci siamo separati mai; mi sta vicino nel suo tempo libero”) che invita a sederci su una sedia, una di quelle che si trovano negli uffici. E’ una delle persone più care a Bettini insieme a Libero Bozza. E’ forse così che deve essere la casa di un vero uomo di potere? “Ma io non ho incarichi. E non dico che non me li hanno offerti. Li avrei potuti avere. Li ho rifiutati. Non mi pento”. Anche di non avere accettato di fare il sindaco di Roma? “Anche quello”. Si è trasferito da poco in questo appartamento che dice è “in usufrutto. Pago un mutuo. In una fase non facile della mia vita ho abitato anche nel quartiere Rebibbia. Sentivo ogni mattina la chiamata dei carcerati. Qui mi manca non poter ascoltare musica. E’ la mia passione insieme al cinema. Sono stato amico di Luciano Berio. Mi ha insegnato ad ascoltare i rumori. Anche i rumori si possono cercare, ordinare”. Non ci sono giradischi. “La casa è troppo piccola”. Dove sono i libri della sinistra? Tutta la biblioteca di Bettini è oggi un catalogo minimo. Ci sono alcune opere di Lenin, di Togliatti, i testi di Ingrao e poi alcuni gialli: “Ho imparato a scrivere leggendo Agatha Christie”.

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C’è una cyclette ma è coperta. Sotto il letto si intravede una bilancia. “La mia vera libreria è in Thailandia”. Dunque nasconde il suo regno nel Pacifico? “Nessun regno, è una grande casa in cui vivono sei famiglie thai. Venderò anche quella perché ho deciso di trasferirmi definitivamente a Roma”. Che ne farà con il denaro? “In parte lo consegnerò alle sei famiglie che in questi anni sono state la mia comunità affettiva. Li aiuterò così. Sarò felice. So già che in Thailandia non ci tornerò di frequente”. Contiamo quattro camicie bianche, due di colore azzurro. Non c’è un armadio. Gli abiti di Bettini sono riposti su una struttura metallica, una di quelle essenziali, in alluminio. Perché questa povertà? La ostenta? “Perché la chiama povertà? Io ci trovo ordine. Per tutta la vita non ho cercato altro che questo”.

 

Dice che da bambino ha respirato un clima di agiatezza. Il nonno, Luigi Bettini, era un proprietario terriero. Usa la parola “benestante”. Bettini appartiene all’aristocrazia marchigiana che spiega essere diversa da quella romana. “La nobiltà marchigiana è conservatrice. I nobili marchigiani sono sedentari. A quattordici anni ho vissuto tuttavia lo sfilacciamento della mia famiglia che era anche lo sfilacciamento di un ceto. Avevo bisogno di forme rassicuranti. Mi serviva un modo per riordinare il mio mondo. Il Pci è stato questo. Ho investito tutta la mia vita nel partito. Mi ha salvato”. Chi era suo padre? “Un grande penalista repubblicano. Lo adoravo. E’ morto improvvisamente. Mi diceva sempre che l’imputato è troppo solo di fronte al giudice che aveva dietro tutta la forza dello stato”.

 

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Ha paura della giustizia? “Ho paura di questa forza che può essere terribile. C’è una sproporzione. Nel nostro sistema penale non esiste un giudice terzo. Pm e giudice coincidono. Sono sempre stato a favore della separazione delle carriere. Ma non uso la parola ‘garantista’. I garantisti sono ormai una categoria abusata”. Anche sua madre era una donna di diritto? “Si chiamava Wilde. Era completamente diversa da mio padre. Apparteneva a una famiglia di gioiellieri romani. Mio padre possedeva una nobile pigrizia, lei era invece una borghese attivissima. E’ stata costretta a fare i conti con la vita. Si sposò con un ufficiale albanese. Ma rimase vedova. Sono nato dal suo secondo matrimonio”.

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Bettini aveva due fratelli “entrambi comunisti”, (“uno è morto precocemente”) e una sorella che chiama “la sorellina”. E’ nata da un altro rapporto che ha avuto il padre dopo la separazione con la madre. Prova a spiegarci che la famiglia Bettini è una famiglia a scacchi e vuole dire che sono fratelli e incroci di amori. Si fa porgere dell’uva quando rivela quale sia il suo vero demone. “Ho sempre avuto paura della caduta delle forme”. La famiglia è una forma? “Sì, lo è”. Serve? “Serve”. Si alza alle cinque di mattina e legge i giornali del giorno precedente. “E’ il metodo migliore per analizzare, pensare”. Perché si alza così presto? “Sono le ore più belle”. Non dorme? “Non molto”. E di pomeriggio? “Non rinuncio a una pennichella. Mi aiuta”. Ogni mattina tra fratelli si telefonano. E’ una solidarietà magica, un sentimento fortissimo che si scatena nelle famiglie che talvolta si lacerano senza strazi. “Una famiglia è un po’ come un giardino leopardiano. Si pensa ci sia armonia, ma il giardino nasconde una guerra permanente. L’opera del giardiniere, la fanciulla che calpesta…”.

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Tiene la bottiglia d’acqua accanto alla poltrona ma non beve. Indossa dei pantaloni comodi, combatte i guasti del tempo. Ha 67 anni. E’ diventato comunista a quattordici grazie a una giornalaia di Senigallia (“è stato il luogo delle mie vacanze”) che nascondeva la copia dell’Unità dentro al Messaggero: “Mi fece diventare comunista”.

 

Chi ha descritto Bettini lo ha sempre raccontato come un uomo di lettere: “Ho frequentato Pasolini. E non solo. Ero pasoliniano. Ho sempre amato le borgate. Io voglio vincere nelle borgate non a Roma centro”. E però, ha studiato al liceo scientifico Augusto Righi: “Avevo un talento per la fisica e la matematica. Andavo male nelle lingue”. In inglese? “Non l’ho mai imparato bene malgrado mia madre ci avesse provato mandandomi in Inghilterra”. L’università non l’ha mai finita “perché fui travolto dal partito”. Quale facoltà? “Legge”. Perché la facoltà di Legge? “Volevo somigliare a mio padre anche in quello”. Ha occupato? “Ovviamente”. Ha picchiato? “Sì”. È stato picchiato? “Certo, ma mi difendeva il mio amico Massimo Pompili, cintura nera di karate il cui motto era “chi mena per primo, mena due volte”.

 

Dice che non ha mai avuto soggezione di nessun leader comunista (“Ingrao, Bufalini, Natta, Chiaromonte che poi mi indicò alla guida della Fgci di Roma dopo la cacciata di Lama dalla Sapienza”). Solo di fronte a Enrico Berlinguer ha abbassato lo sguardo: “Cambiò la linea del movimento giovanile quando si accorse che nelle occupazioni si distruggevano i microscopi. Ci convocò perché trovava quell’azione come la più orribile. I ricchi non ne hanno bisogno, ma i poveri sì. Aveva ragione lui”. Gli diciamo che, su Roma, la sua è forse la più lunga delle egemonie. Segretario della Fgci, capo del partito romano, ha lanciato la candidatura di Rutelli, di Veltroni ma anche quella di Ignazio Marino (“Ma dal giorno dopo l’elezione i rapporti sono cambiati. Non sono intervenuto in alcuna delle sue scelte”).

 

Si è “accontentato” di Roma? “L’aula del Campidoglio era una cosa seria. Una scuola di oratoria. Da segretario del Pci romano ho avuto il privilegio di entrare nella direzione nazionale. I componenti erano solo venti. Mi tremavano le gambe. Ho avuto la fortuna di creare in questa città una classe dirigente. Di questo vado orgoglioso”. Chi sono stati gli amici di quel tempo? “Uno dei più importanti è stato Gianni Borgna. Mi manca la sua grazia e la sua genialità. Da politico ha ottenuto meno di quanto meritasse. Aveva una gentilezza interiore ma gli mancava la voglia di esercitare la forza. E la forza in politica è, come dice Machiavelli, tutto; perché chi non ha eserciti suoi ‘è destinato alla sconfitta’. Nel partito ho conosciuto persone meravigliose”. Racconta che durante l’invasione della Cecoslovacchia, ed era ancora adolescente, entrò in una sede del Pci e fece un intervento stralunato per difendere l’invasione: “Altrimenti mi sembrava si rinnegasse quello che allora era il nostro mondo. Sono stati errori. Quanti errori”.

 

Dopo il 1989, quando si decise di mettere fine al Partito comunista italiano, si è ammalato. Una depressione importante. “Il crollo del partito coincise con il mio crollo fisico”. A votare a favore della svolta lo convinse Massimo D’Alema (“mi nutrivo politicamente di Ingrao ma nella conduzione del partito contava molto D’Alema”) e dice che ancora ricorda le sue parole: “Non è vero che la svolta è un gioioso atto fecondo. Non c’è allegria, ma è una dolorosa necessità”. Votò quindi per la svolta? “Sì, ho votato”. Ce l’ha con D’Alema? “No”. Non ce l’ha davvero con lui. Ma il suo mondo non è tornato più lo stesso. “La verità è che da quel momento mi sono abituato a vivere nel disordine. Ho accettato la vita nelle sue slabbrature. E’ cambiato tutto. E’ stato un dolore. Per me non era solo un partito. Era la mia stessa identità”. Da allora Bettini non ha voluto derogare. “Non ho più accettato ruoli monocratici. Oggi è vero che dico la mia e che intervengo, ma, se voglio, posso smettere domani. In quegli anni intrapresi un percorso di ricerca, una lunga terapia. Ma mi è rimasto il timore di ‘rompermi’ di nuovo. Sono stato presidente dell’Auditorium. L’ho letteralmente costruito con Renzo Piano. Ho inventato il festival del Cinema di Roma”.

   

Il suo film più amato è “Germania anno zero” di Roberto Rossellini e in particolare la scena finale: “Un ragazzo cammina a Berlino e vede intorno a sé solo macerie. Si getta nel vuoto. E’ una scena girata da Carlo Lizzani. Ho pensato spesso a quella scena”. Perché non si è mai sposato? “In gioventù ho avuto molti affetti. Ma dopo quella crisi cui ho accennato ho preferito vivere da solo”. Non ha mai avuto figli. “E’ stata la cosa che più mi è mancata”. Li avrebbe voluti? “Tantissimo. Credo che adottare quelle famiglie in Thailandia sia stato un modo per compensare quella mancanza”. Dicono che Nicola Zingaretti sia un po’ il figlio che non ha avuto e lo stesso Zingaretti ha sempre spiegato che Bettini è come un padre. Che rapporto c’è tra di voi? “Un rapporto specialissimo. Ma ci sono periodi in cui Nicola si è distaccato. E’ giusto così”. Quando pochi mesi fa, sul Foglio, Bettini ha parlato della necessità di creare una sinistra a tre gambe, Zingaretti ha dovuto precisare: “Sono opinioni di Goffredo. Non sono le mie”. “E però, in quel caso, avevo ragione io. Non bisogna avere una vocazione maggioritaria per occupare fisicamente tutto il campo democratico, piuttosto un’ispirazione maggioritaria”. Si sono divisi e ripresi. Quando Zingaretti ha accettato di correre come presidente della provincia di Roma, dopo l’elezione, i due si allontanarono. E poi? “Io ho creduto in Renzi prima che Renzi bruciasse se stesso. Nicola ha creduto in Bersani”.

 

Ugo Sposetti, che è un vecchio della sinistra, pensa che Zingaretti sia un uomo fortunato. E Bettini dice che è vero: “Napoleone non chiedeva generali bravi, ma generali fortunati. Nicola è abile, scaltro, veloce, intelligentissimo. E’ un ottimo amministratore. A volte eccessivo nell’autocritica, come me”. E’ pronto per Palazzo Chigi? “Potrebbe, ma deve leggere di più. Deve prendersi lo spazio per parlare con gli intellettuali, per andare al cinema. Togliatti ripeteva che un dirigente deve essere un po’ pigro. Oggi i politici stanno tutto il tempo con i telefonini. Di corsa. Mi viene da dire: “Datevi una calmata”. Chiaromonte mi intimava: “Leggi un libro su una sedia scomoda”. E io gli rispondevo con le parole di Churchill: ‘Non stare in piedi se puoi stare seduto, non stare seduto se puoi stare disteso”. Lo sa che lei è un uomo temuto? “Sbagliano. Non mi conoscono. E’ vero però che i complimenti più belli mi sono arrivati sempre da destra. L’indimenticabile Tony Augello disse che, per quanto avevo fatto a Roma, la sinistra avrebbe dovuto mettermi a cavallo al posto di Marco Aurelio. Storace, quando mi dimisi dal Senato per coordinare il Pd, fece un commovente ‘onore alle armi’ in Aula”. La invidiano? “E cosa dovrebbero invidiarmi.”.

 

E’ lei l’ideologo, la grande mente del governo? “La mia forza è la disciplina. Cerco di scartare l’inutile e andare al centro delle cose. E’ uno sforzo per pensare pulito. Io penso in maniera pulita”. Quindi mai più l’ideologo? “L’unico complimento che mi ha fatto piacere, e che continua a farmi piacere è stato quello di Berio. Disse che la mia B sta accanto a quella di Berlioz, Beethoven, Brahms, Brukner, Bartok”. E poi c’è addirittura la B di Bettini? “Lo ha detto lui che cercava i rumori”. A casa di Bettini c’è un magnifico silenzio.

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