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All’Italia serve uno spazio diverso per arginare il ritorno del partito della spesa

Alessandro Cattaneo

Cosa possono fare le forze riformiste per evitare di essere ostaggio di un nuovo populismo statalista? Idee per un’agenda futura

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È evidente a tutti che si sta assistendo da tempo ormai ad un ritorno rilevante dello Stato nelle dinamiche dell’economia nazionale. Per dimostrarlo basta osservare quante importanti società quotate in borsa in Italia hanno oggi fra i loro azionisti il Ministero dell’Economia e delle Finanze, o società da quest’ultimo controllate. Oppure è sufficiente notare quanto si tenda nel dibattito pubblico a richiedere l’intervento dello Stato ogni volta che si è di fronte ad una crisi aziendale, indicando in sostanza qualsiasi attività economica o impresa come “strategica” e spiegando che solo con la presenza del “pubblico” si può raggiungere un maggior controllo degli investimenti ed una maggiore efficienza. Eppure non mancano gli esempi che ci ricordano che quando è il settore pubblico a gestire delle attività i risultati non sono spesso così straordinari: basti pensare alla sanità e alle inefficienze delle spese delle varie regioni su questo tema oppure alle condizioni di molte strade statali, gestite appunto dal "pubblico" e non dai privati. Analizzando questo scenario sopra richiamato può essere quindi utile chiedersi che fine ha fatto il “mercato” in Italia oggi? Siamo sicuri che la crescita del peso dello stato in ogni settore economico sia un bene o che comunque rappresenti sempre una soluzione efficiente?

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È evidente a tutti che si sta assistendo da tempo ormai ad un ritorno rilevante dello Stato nelle dinamiche dell’economia nazionale. Per dimostrarlo basta osservare quante importanti società quotate in borsa in Italia hanno oggi fra i loro azionisti il Ministero dell’Economia e delle Finanze, o società da quest’ultimo controllate. Oppure è sufficiente notare quanto si tenda nel dibattito pubblico a richiedere l’intervento dello Stato ogni volta che si è di fronte ad una crisi aziendale, indicando in sostanza qualsiasi attività economica o impresa come “strategica” e spiegando che solo con la presenza del “pubblico” si può raggiungere un maggior controllo degli investimenti ed una maggiore efficienza. Eppure non mancano gli esempi che ci ricordano che quando è il settore pubblico a gestire delle attività i risultati non sono spesso così straordinari: basti pensare alla sanità e alle inefficienze delle spese delle varie regioni su questo tema oppure alle condizioni di molte strade statali, gestite appunto dal "pubblico" e non dai privati. Analizzando questo scenario sopra richiamato può essere quindi utile chiedersi che fine ha fatto il “mercato” in Italia oggi? Siamo sicuri che la crescita del peso dello stato in ogni settore economico sia un bene o che comunque rappresenti sempre una soluzione efficiente?

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Possibile che ogni settore economico ed azienda in crisi sia sempre “strategica” per tutti noi? E soprattutto non si rischia salvando alcuni di “condannare” altri? Perché i dipendenti Alitalia devono avere ad esempio più attenzione della media impresa italiana costretta magari a licenziare 10 dipendenti per il crollo delle esportazioni? Quando si parla di spesa pubblica e intervento dello Stato è utile innanzitutto distinguere fra spesa pubblica "buona", ovvero quella per investimenti e sviluppo (si pensi ad esempio al finanziamento di infrastrutture strategiche), e spesa pubblica "cattiva", ovvero quella per finanziare ancor di più le spese correnti e le manovre elettorali, come il reddito di cittadinanza (che non ha portato risultati sul fronte dell'occupazione, ma spesso solo nuove risorse a chi magari già aveva un lavoro in nero prima). Il secondo elemento di riflessione quando si ragiona sulla spesa pubblica e sul nuovo protagonismo dello Stato è rappresentato dal ricordare che il settore pubblico tanto invocato non dispone di risorse finanziarie illimitate, non potendo stampare moneta, “tassando” tutti i cittadini con una conseguente crescita dell’inflazione, e non avendo margini per un’ulteriore crescita del debito pubblico, già oggi vicino al 160 per cento del nostro prodotto interno lordo che stenta a crescere ormai da molti anni.

 

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Si dirà che con l’arrivo del Recovery Fund il problema della disponibilità di risorse finanziarie sarà superato. Ma basta ragionare su un orizzonte di 3/5 anni per rendersi conto che non è così. Qualche numero può aiutarci ad inquadrare meglio la situazione. Nel 2019, prima dell’arrivo del coronavirus che sta comportando una sfida ulteriore per la tenuta dei conti pubblici italiani, su circa 870 miliardi di spesa pubblica complessiva (ovvero spese dello Stato centrale, degli Enti Locali e della gestione previdenziale) ben 300 miliardi circa sono stati destinati alla sola gestione del debito pubblico, fra interessi passivi da pagare per lo stock di debito in essere e rimborso dei Titoli di Stato in scadenza. Fra tante e note voci di spesa pubblica (sanità, pensioni, istruzione, giustizia, difesa...) in sostanza oltre un terzo delle risorse utilizzate va a coprire un unico tema: il debito. Come può dunque pensare uno Stato che spende già oggi ben 1 euro su 3 per la gestione del suo debito pubblico di intervenire ancora di più nell’economia reale? I 210 miliardi del Recovery Fund (che arriveranno poi diluiti nel tempo e non subito naturalmente) come possono in questo scenario bastare da soli a credere che lo Stato puó e potrà finanziare molti altri interventi e gestire al tempo stesso il suo debito pubblico, quando solo nel periodo 2021-2023 scadranno poi quasi 600 miliardi di Titoli di Stato di medio e lungo termine? È evidente quindi che, al di là della visione politica più o meno liberale, o se preferite più o meno interventista, che ciascuno può avere, la verità dei numeri non può non spingerci a ragionare sul come coinvolgere le forze del mercato e dei privati nel rilancio dell’economia, perché lo Stato da solo non avrà tutti i mezzi necessari alla luce della situazione sopra descritta.

 

Partiamo ad esempio dall’analisi dei risparmi privati degli italiani. Tutti i dati dimostrano che è disponibile una notevole liquidità sui conti correnti. Si parla di oltre 1.000 miliardi di euro di disponibilità. Una liquidità immensa remunerata quasi sempre allo 0% dal sistema bancario. Possibile non si riesca a spingere almeno una parte di queste risorse finanziarie nell’economia reale senza aspettare che a farlo siano necessariamente gli istituti di credito? Basterebbe, ad esempio, agevolare fiscalmente per davvero chi voglia aprire una nuova impresa con le proprie risorse nei prossimi anni, o gli imprenditori pronti a sostenere aumenti di capitali delle loro imprese per fare nuovi investimenti, per spingere forse una parte degli italiani a dare un impiego diverso a questa enorme liquidità. Un impiego capace di creare investimenti, occupazione, maggiori consumi. Invece l’unico progetto che si sta portando avanti è chiedere a tutte queste persone con grandi o piccole disponibilità sui conti correnti di sottoscrivere BTP, incentivando il ritorno delle famiglie italiane fra i sottoscrittori del debito pubblico. L’idea non è naturalmente negativa (se poi lo Stato userà questa risorse per finanziarie investimenti e sviluppo e non spese correnti e bonus inutili) ma non può da sola bastare ad efficientare l’utilizzo di queste risorse. Guardando poi al mercato ed ai privati già in campo con le loro imprese, perché non si torna da subito a discutere con forza del partenariato pubblico privato? Perché non si riesce ad immaginare che grandi opere e investimenti possono essere finanziati insieme dallo Stato e da importanti soggetti privati così da moltiplicare le risorse mobilitate?

 

Anche su questo fronte si può fare di più. E naturalmente la base di partenza deve essere un cambio di visione politica, perché se gli imprenditori vengono definiti per principio “prenditori”, e se non si riconosce che l’investimento di un soggetto privato deve essere comunque redditizio e sostenibile da un punto di vista finanziario, è evidente che non si può andare lontano. E ragioniamo allora su due parole che sembrano diventare sempre meno rilevanti mentre si invoca l’intervento dello Stato continuamente, ovvero “mercato” e “concorrenza”. I due termini sono strettamente legati infatti al maggior intervento dello Stato nell’economia, perché spesso questo si concretizza nella creazione o difesa di monopoli, che naturalmente sono l’opposto del mercato e della concorrenza. La concorrenza è un bene per il nostro sistema economico. In ogni settore, nel rispetto delle regole antitrust naturalmente, spinge i prezzi verso il basso a vantaggio dei cittadini. Al tempo stesso porta le aziende ad investire per difendere le proprie quote di mercato o conquistarne di nuove. Maggiori investimenti da parte di queste ultime portano più occupazione. E più occupazione porta anche maggiori consumi e maggiori tasse versate, andando così ad alimentare un circolo virtuoso per l’economia nazionale. Lo Stato dovrebbe quindi chiedersi sempre prima di intervenire in un determinato settore se non possa essere preferibile incentivare la concorrenza promuovendo politiche in questa direzione.

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Pensiamo ad esempio al settore della telefonia. In Italia esiste una concorrenza notevole come noto. Molti sono gli operatori, molte le offerte vantaggiose per i cittadini, importanti gli investimenti tecnologici e di marketing che vengono fatti dalle imprese in concorrenza fra loro. Perché non spingere dinamiche analoghe in altri settori? Pensiamo al trasporto pubblico locale ad esempio. È davvero assurdo credere che in una grande città come Roma possano esserci due o più aziende private che si occupano del trasporto pubblico di milioni di cittadini, magari anche in concorrenza con il pubblico stesso? In sintesi, risorse private, mercato e concorrenza possono aiutare davvero lo Stato nel rilanciare la nostra economia considerando che questo non dispone di risorse illimitate. Dobbiamo ragionare su questi temi ed intervenire per noi stessi ma anche per le prossime generazioni. Come ci ha recentemente ricordato il Presidente Draghi, infatti, dobbiamo sottolineare che il futuro dei giovani italiani è a rischio da un lato, e bisogna quindi intervenire subito per rilanciare il nostro sistema produttivo, e dall’altro esiste anche un debito pubblico buono ed un debito pubblico cattivo.

 

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Con le risorse del Recovery fund, e con il coinvolgimento delle forze del settore privato, dobbiamo finanziare infrastrutture, sviluppo delle aziende, rilancio del settore immobiliare, dimenticato da anni, una grande e nuova riforma fiscale; non possiamo pensare di utilizzare le risorse europee per nuove spese correnti o per rifinanziare le spese elettorali passate come il reddito di cittadinanza. Accettiamo dunque di avere un livello sostenibile di debito pubblico buono per finanziare infrastrutture e investimenti, e non la spesa corrente, ma uniamo all’utilizzo di questa leva le risorse dei privati, l’opportunità della concorrenza e la forza delle dinamiche di mercato. Solo così si potrà guardare al futuro del Paese con fiducia: lavorando a un nuovo spazio politico capace di creare un'alternativa al partito unico della spesa.

 

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