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polvere di cinque stelle

Di Maio non crede nel bluff di Casaleggio. Ma il caos non gli dispiace affatto

Il ministro degli Esteri tira dritto, cioè un po' verso sinistra. Governare è l'unica cosa che conta

Valerio Valentini

Il ministro degli Esteri rilancia l'asse col Pd, e snobba Dibba, che non ha le truppe per fare una scissione. L'ex capo grillino prepara la mediazione col capo di Rousseau, e si gode i timori e i tremori di Conte

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Ostenta indifferenza al delirio collettivo. Dissimula una calma inverosimile, quasi che quel Movimento che per oltre due anni ha guidato non fosse cosa sua. Luigi Di Maio sta lì, tetragono ai rivolgimenti interni, con l’aria di chi nel bluff di quanti paventano scissioni ci crede fino a un certo punto. E così, a chi nelle scorse ore gli ha chiesto se era a conoscenza di cosa Casaleggio stesse promettendo ai parlamentari grillini per indurli alla rivolta, il ministro degli Esteri ha risposto un poco serafico che no, non lo sapeva, ma che comunque lui, Di Maio, poteva “offrire la possibilità di contare davvero”. In sostanza, di stare al governo. 

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Ostenta indifferenza al delirio collettivo. Dissimula una calma inverosimile, quasi che quel Movimento che per oltre due anni ha guidato non fosse cosa sua. Luigi Di Maio sta lì, tetragono ai rivolgimenti interni, con l’aria di chi nel bluff di quanti paventano scissioni ci crede fino a un certo punto. E così, a chi nelle scorse ore gli ha chiesto se era a conoscenza di cosa Casaleggio stesse promettendo ai parlamentari grillini per indurli alla rivolta, il ministro degli Esteri ha risposto un poco serafico che no, non lo sapeva, ma che comunque lui, Di Maio, poteva “offrire la possibilità di contare davvero”. In sostanza, di stare al governo. 

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E per governare, per contare, occorre per ora restare acquattati all’ombra del Pd. “L’anno prossimo corriamo per 5 capoluoghi di regione. Se staremo ancora in questo governo,  andando da soli le regaliamo tutte al centrodestra. E  crediamo che non ci sarebbero ripercussioni a Roma?”. Così, giorni fa, Di Maio catechizzava i colleghi ministri. Gli stessi a cui ieri ha mostrato l’efficacia della sua teoria: “Visto? Dove andiamo in coalizione, vinciamo”. Che forse non sarà importante,  ma per Di Maio è l’unica cosa che conta. Anche a costo di rinnegare se stessi (la vittoria festeggiata a Pomigliano, dov’era tutto cominciato al grido del “né destra né sinistra, solo oltre”, e dove ora si stringono i patti con gli emissari del Nazareno), esultando per essere andati al traino (com’è successo anche in altri comuni in Campania) del partito di Bibbiano. “Ci siamo trasformati in una lista civetta sotto il controllo del Pd”, sbuffa Ignazio Corrao, sentinella del prode Dibba in quella Sicilia dove il M5s celebra la vittoria a Termini Imerese insieme ai dem, “e dove però perdiamo due comuni che governavamo da soli: Augusta  e Pietraperzia. I nostri capi si incensano, ma in realtà perdiamo consiglieri dovunque. Per Di Maio l’unica identità sta nell’occupare poltrone: ma quanto durerà? Quanto ci metteranno gli italiani ad accorgersi che siamo  la brutta copia del Pd, e  votare l’originale?”. 

 

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Di certo, secondo Di Maio, ce ne metterebbe assai più Casaleggio, di tempo, per allestire una scissione. A livello parlamentare, l’ipotesi di un golpe da parte del capo di Rousseau appare un po’ una roba alla Giuseppe Tritoni, il protagonista di “Vogliamo i colonnelli”. Una guerra senza soldati, a ben vedere. Perché al Senato l’irriducibile Barbara Lezzi ne controlla non più di cinque, a quanto dice il bollettino di giornata. E perché alla Camera, certo, c’è un manipolo che raccoglie, senza grande comunione d’intenti se non quello di agitare il caos, l’ex ministra Giulia Grillo e il deputato livornese Francesco Berti, non a caso arruolato nella squadra di Rousseau, cioè di Casaleggio, e altri grillini parasovranisti come i veneti  Maniero e  Raduzzi. Ma poi al dunque il nodo politico è Emanuela Corda, deputata sarda pure lei sempre incline alla polemica, a scioglierlo: “La verità – scrive ai suoi colleghi – è che ci siamo seduti a tavola e non ci vogliamo più alzare. Anche se siamo sazi”.

 

Ed è proprio su questa famelica voglia di sopravvivere che Di Maio scommette. Per questo tira dritto, pendendo un poco a sinistra. “La corda si spezza, a furia di tirarla”, gli manda a dire Dibba, e lui manco lo considera. Sa che insomma l’unica minaccia che Casaleggio possa davvero utilizzare ha a che vedere con la folle burocrazia del M5s, su quel proliferare caotico di statuti e regolamenti che in effetti garantisce  al manager milanese di potersi tenere il simbolo e il controllo del SacroBlog, e insomma trascinare tutti in una guerra di carte bollate e meschinità sui giornali  da cui forse solo lui uscirebbe vivo. “Ma arrivare alla resa dei conti non conviene a nessuno:  Luigi una mediazione la troverà”, ha spiegato il viceministro Laura Castelli ai deputati che la interpellavano. La troverà, magari, chiedendo ai parlamentari di mettersi in regola con le rendicontazioni e contestualmente convincendo Casaleggio ad accettare quel contratto di servizio per la piattaforma Rousseau così invocato dagli eletti del M5s. E riguadagnandosi così la centralità di leader de facto di un partito che non riesce a organizzare neppure un congresso. A meno che Casaleggio non tiri dritto pure lui: e a quel punto, col marasma che ne conseguirebbe, Di Maio potrebbe comunque sperare di guadagnarci. Perché con un M5s in aria, la figura di Giuseppe Conte, di quello che avrebbe dovuto dirigere il traffico nel trambusto a cinque stelle, finirebbe irrimediabilmente appannata. E a Di Maio neppure questo dispiacerebbe.
 

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