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Addio Palasharp

I nomi di LibertàeGiustizia divisi dal referendum dopo vent’anni di concordia

Zagrebelsky, Settis, Urbinati e Montanari diversamente schierati per il Si e per il No laddove le lotte antiberlusconiane e antirenziane univano

Marianna Rizzini

L'anticasta, la casta, la libertà, la repubblica, la democrazia: antiche battaglie rimescolate ai tempi del governo rossogiallo

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Roma. C’era una volta l’anno 2013, anno in cui l’associazione LibertaeGiustizia si muoveva all’unisono nel vasto mare della cosiddetta “urgenza di democrazia”. C’era una volta il manifesto di Gustavo Zagrebelsky (“Non è cosa vostra”) a difesa della Costituzione. E c’erano una volta i saggi che ancora prima, all’inizio degli anni Duemila, si muovevano in quella galassia come un sol uomo, lungo il confine tra politica e società, e lungo le strade tortuose del post-Tangentopoli e del berlusconismo e dei post-it gialli e dei popoli viola e della libertà di informazione e dell’articolo 18: c’era, tra gli altri, il compianto Stefano Rodotà, e c’erano Sandra Bonsanti e Lorenza Carlassare, Paul Ginsborg, Tomaso Montanari e Nadia Urbinati.

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Roma. C’era una volta l’anno 2013, anno in cui l’associazione LibertaeGiustizia si muoveva all’unisono nel vasto mare della cosiddetta “urgenza di democrazia”. C’era una volta il manifesto di Gustavo Zagrebelsky (“Non è cosa vostra”) a difesa della Costituzione. E c’erano una volta i saggi che ancora prima, all’inizio degli anni Duemila, si muovevano in quella galassia come un sol uomo, lungo il confine tra politica e società, e lungo le strade tortuose del post-Tangentopoli e del berlusconismo e dei post-it gialli e dei popoli viola e della libertà di informazione e dell’articolo 18: c’era, tra gli altri, il compianto Stefano Rodotà, e c’erano Sandra Bonsanti e Lorenza Carlassare, Paul Ginsborg, Tomaso Montanari e Nadia Urbinati.

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L’ambiente era quello dei paladini (allora come oggi) dell’intesa cordiale Pd-Cinque Stelle, e pazienza se i Cinque stelle degli esordi apparivano indomabili sul fronte della contaminazione con gli altri partiti. E insomma, con la Costituzione intoccabile come faro, la comunità di LeG macinava appelli e piazze, reali e virtuali. Memore del 2002, anno della nascita, quando al Piccolo Teatro Studio di Milano – al cospetto, tra gli altri, di Umberto Eco ed Enzo Biagi – l’associazione aveva presentato al mondo una sorta di manifesto, in cui si era mostrata pronta a “spronare i partiti” perché esercitassero “fino in fondo il loro ruolo di rappresentanti di valori, ideali e interessi legittimi”. Siamo “l’anello mancante fra i migliori fermenti della società e lo spazio ufficiale della politica”, dicevano i saggi, che poi, tra il 2004 e il 2006, si erano chiusi a tenaglia per proteggere la Carta dalle riforme del Cav. E, negli anni, sempre concordi si erano mossi contro il degrado, contro la corruzione e contro lo sfascio, affiancati di volta in volta da Marco Travaglio, da Roberto Saviano e di nuovo da Gustavo Zagrebelsky, vuoi per le dimissioni di B. vuoi per la ricostruzione del paese (febbraio 2011, Palasharp di Milano), in nome della libertà, della giustizia, della democrazia, della repubblica, dell’uguaglianza, del lavoro e (naturalmente) della Costituzione. Poi era arrivato il nemico uguale e contrario, sotto forma di referendum renziano del 2016. 

 

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Ma i tempi cambiano, e può capitare – in tempi di governi rossogialli, e dunque con le speranze pro-grillismo in fuga di fronte alla realtà – che il fronte prima compatto si faccia composito. E che, come nel caso del referendum del 20 e 21 settembre, chi prima marciava si metta a camminare diviso. S’è visto dunque, prima del voto, uno Zagrebelsky schierato per il Sì (“perché molte ragioni del No non stanno in piedi”), al pari di Lorenza Carlassare (“solo con il Sì cambierà questa legge elettorale”), di Valerio Onida (“con il taglio le Camere potranno funzionare meglio anche senza correttivi”) e di Salvatore Settis: “Dico Sì alla riforma contro quelli che ragionano a breve termine”. E, da da ex nemico del Sì nel 2016, Settis attaccava il fronte opposto al grido di: “Grande è la confusione sotto il cielo”, ma “ancor più grande nella penisola. Come spiegare chi, avendo votato in Parlamento la modifica costituzionale che riduce il numero di deputati e senatori, al referendum si schiera per il No?”. Intanto, per il No, si ergeva Nadia Urbinati: “Se diminuisce il numero dei seggi ci sarà la formazione di un gruppo che ha un privilegio superiore, una oligarchia. Ed è paradossale che a volerlo siano proprio i Cinque stelle, cioè la forza antisistema per eccellenza”. Ma soprattutto si ergeva Tomaso Montanari, che contro la “cecità” dei sostenitori del Sì chiamava a raccolta addirittura Matteo (Vangelo secondo Matteo): “Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!”. Infine, di suo pugno, spiegava: “E’ davvero difficile trovare parole più adatte a commentare le argomentazioni che in queste settimane provengono dal vastissimo fronte del Sì, che comprende (ricordiamolo) pressoché tutti i poteri e tutti i partiti, e però pretende di agire per redimere il Parlamento dagli abusi dei poteri e dei partiti”. A buon intenditor, anche dentro LeG. 
 

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