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Guida per gli indecisi

Referendum: perché sì, perché no? Una domanda semplice

Qual è il numero ottimale di parlamentari? Il confronto con gli altri paesi, la questione del principio di rappresentanza e l’eterna attesa delle riforme. Un ultimo girotondo

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“Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?”: questo il quesito del referendum a cui sono chiamati a rispondere domani e lunedì gli elettori. In queste pagine un ultimo girotondo con le ragioni del Sì e quelle del No.

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“Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?”: questo il quesito del referendum a cui sono chiamati a rispondere domani e lunedì gli elettori. In queste pagine un ultimo girotondo con le ragioni del Sì e quelle del No.

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Abbiamo il Parlamento più pletorico del mondo

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Fra le preoccupazioni avanzate dai sostenitori del No alla riduzione dei parlamentari votata alla quasi unanimità dal Parlamento (anche perché pur spinta dal M5s è una riduzione, collegata o scollegata a una riforma del bicameralismo, di cui si parla da decenni) vi sarebbe il rischio di una minore capacità rappresentativa delle due Camere da 400 e 200 componenti. Ora va innanzitutto ridetto, chiaro e tondo, che abbiamo il Parlamento più pletorico dell’orbe terracqueo: che si tenga conto dei numeri assoluti o del rapporto con la popolazione è un dato di fatto inconfutabile qualunque criterio di comparazione si intenda adottare. Siamo il 23° paese al mondo per popolazione: ma il 3° per numerosità dei parlamentari (anche contando quelli non elettivi!), dopo Cina e Regno Unito (che si colloca al secondo posto grazie ai Lords ereditari e a vita! Valuti il lettore se considerarli o no). A riforma in vigore, con 600 parlamentari, scenderemmo al 16° posto (pur con tanti paesi più grandi del nostro).

 

Chiarito ciò, è evidente, per motivi matematici, che se la capacità di rappresentare gli elettori è valutata solo in termini di rapporto parlamentari/cittadini, e questo non lo si intende aumentare, non resta che dire onestamente: “Abbiamo scherzato”, e rinunciare a qualsiasi riduzione. Ma ben pochi dei fautori del No dicono questo. Avanzano, invece, fumose preoccupazioni in ordine alla capacità delle due Camere di assicurare adeguate prestazioni di rappresentanza politica e di rappresentanza territoriale. Vediamo. Quanto alla rappresentanza politica c’è da escludere che la questione tocchi in alcun modo la Camera da 400 componenti (alla Camera le 27 circoscrizioni, Valle d’Aosta e Molise a parte, eleggono da 4 a 29 deputati, e ventuno di esse, da 10 in su: e il riparto dei seggi è nazionale).

 

Riguarderebbe il Senato: dove i 200 sarebbero in sé ampiamente sufficienti, ma siccome la Costituzione li vuole assegnati in base agli abitanti e attribuiti regione per regione, siccome la riduzione ha comportato anche la riduzione del numero minimo di senatori per regione o provincia autonoma da 7 a 3, ecco che, ripartendo i seggi fra i partiti in questo modo, nelle regioni da 3 (oltre che come da sempre in Valle d’Aosta e Molise, con 1 e 2 eligendi), Bolzano, Trento, Umbria, Basilicata e da 4, Friuli V. G. e Abruzzo, in tali regioni e province, solo le forze politiche maggiori potranno ottenere seggi. Ma i partiti piccoli potranno avere eletti nelle regioni con più senatori (le nove regioni più grandi): un po’ come accade in Spagna. (E’ per questo che si propone di cambiare la Costituzione, e ripartire i seggi del Senato in circoscrizioni interregionali, aumentando gli eligendi: cosa in sé non necessaria se non per aiutare i partiti piccoli). Quanto alla rappresentanza territoriale, ancora di Senato si parla. Intanto va chiarito un equivoco alimentato dal fronte del No: la riforma riduce (ripeto: riduce) non accresce la sovra-rappresentazione delle regioni piccole, proprio perché riduce il numero di senatori minimo garantito da 7 a 3. Ma continua, inevitabilmente, a premiare Valle d’Aosta, Bolzano, Trento, Molise e Basilicata.

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La territorialità diventa questione di legge elettorale, perché se si vuole assicurare il legame eletto/territorio (sempre ricordando che la nostra in base alla Costituzione è una rappresentanza parlamentare nazionale), l’unica soluzione è ripartire tutti gli eletti in circoscrizioni uninominali (ma ciò a danno inevitabile di quella politica di cui sopra): infatti, sia parte dei fautori del Sì sia quasi tutti i fautori del No reclamano a gran voce una legge elettorale integralmente proporzionale, con abolizione dei seggi uninominali attuali! Va da sé che la riduzione diminuisce, rispetto a oggi, la possibilità che l’elettore, che so io, di Cerignola o di Empoli abbia il “suo” senatore: ma, a parte che non so se sarebbe buona cosa, ciò è conseguenza inevitabile della scelta di ridurre il totale dei parlamentari. In sintesi: non si può avere tutto e il contrario di tutto. La riduzione è equilibrata, ci lascia un Parlamento fra i più folti del mondo, soprattutto se si tiene conto della popolazione, persegue un ragionevole equilibrio rappresentativo, e lo fa, a mio avviso, a prescindere da interventi successivi.

 

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Carlo Fusaro
ordinario di Diritto elettorale 
e parlamentare, Università di Firenze


 

La riduzione dei parlamentari non mette in discussione la democrazia

E’ del tutto naturale che ci si divida – ci si confronti ma non ci si insulti – fra costituzionalisti sul referendum costituzionale del 20 e 21 settembre. Mi capita sempre più spesso, però, di stare dalla parte di una (presunta) piccola radicale minoranza: lo ero ai tempi (molto remoti) del referendum abrogativo del sistema elettorale proporzionale e delle due ultime riforme costituzionali che per fortuna non hanno superato il vaglio delle elettrici e degli elettori.


Ora vedo e leggo che in tanti, forse troppi, dopo che la proposta di riduzione del numero dei parlamentari è stata approvata dalle Camere con una maggioranza “bulgara”, sposano, più che legittimamente, le ragioni del No, adducendo motivazioni molto ben argomentate, ma francamente non del tutto convincenti. Sia ben chiaro, la riduzione dei parlamentari non risolve il problema del (mal)funzionamento della nostra forma di governo, ma di sicuro non nuoce a un percorso di autoriforma che deve necessariamente partire dal Parlamento nel tentativo, non semplice, di modernizzare le istituzioni repubblicane.


Mi convince francamente poco il ragionamento di chi anche molto autorevolmente sostiene che con la riduzione dei parlamentari si metterebbe in discussione addirittura il principio di rappresentanza e, di conseguenza, la democrazia. L’obiezione di chi come me è felicemente costretto a studiare le Costituzioni di altri paesi, è tanto semplice quanto banale: se la numerosità dei parlamentari è indice di democrazia, allora la Cina è un paese profondamente democratico (2.980 sono i componenti del Congresso nazionale dei rappresentanti del popolo, il loro Parlamento) e gli Stati Uniti lo sono molto meno (435 i componenti della Camera dei rappresentanti e 100 quelli del Senato, con una popolazione di 330 milioni di abitanti, quasi sei volte superiore all’Italia). Il problema della rappresentanza in Italia è, da anni ormai, un problema di qualità del ceto politico – spesso scelto dalle segreterie dei partiti – non certo di quantità, e la riforma non potrà che ribadire questo concetto. Resta sicuramente impregiudicata – a riforma definitivamente approvata – la questione della revisione dei regolamenti parlamentari (laddove facessero riferimento a valori assoluti e non a percentuali) e, soprattutto, della legge elettorale per la quale auspico che “venga restituito lo scettro al Principe”, cioè al popolo sovrano, mediante la reintroduzione delle preferenze: solo così, credo, si potranno “responsabilizzare” gli elettori e si potranno ricreare rapporti virtuosi, fermo restando il divieto di mandato imperativo che ai più appare, però, incomprensibile.
L’altro argomento, anch’esso facilmente superabile, riguarda la faziosità, l’inutilità e la parzialità della riforma (alcuni parlano di populismo da quattro soldi). La critica non è infondata ma talora è destinata a provare troppo: vorrei ricordare che nel 2016 molti di coloro che oggi sostengono le ragioni del No criticarono la riforma Renzi perché essa “stravolgeva” l’impianto costituzionale modificando in maniera eccessiva il testo della Carta. Oggi che le modifiche sono puntuali (e si parte proprio da ciò che molti nel paese ritengono opportuno e talora necessario) si assiste a un coro di proteste. La mia personale impressione è che si voglia utilizzare il referendum per scopi diversi, forse per rimettere in discussione gli attuali assetti del governo e della maggioranza parlamentare, con ciò commettendo un errore, di merito e di metodo, di assoluta gravità. Il paese, specie dopo la pandemia, appare in grave difficoltà (non solo economicamente), basti pensare alla gestione che hanno fatto alcune regioni dei diritti fondamentali (valga per tutti la libertà di circolazione e i suoi limiti così come chiaramente sanciti in Costituzione), eviterei, pertanto, di portare inconsapevolmente acqua al mulino di chi sostiene l’opportunità di una svolta autoritaria “in grado di cambiare le cose”. Ecco perché anche questa volta, sia pure in ottima compagnia, vado “in direzione ostinata e contraria” e molto convintamente auspico che il Sì al referendum sia l’inizio di un percorso riformatore nel segno della Costituzione.


Saverio F. Regasto
ordinario di Diritto pubblico comparato,

Università degli Studi di Brescia


 

Il taglio delle poltrone non è una riforma, ma solo uno spot elettorale

Che cos’è una riforma? Secondo il vocabolario Treccani, “la modificazione sostanziale”, volta al miglioramento, di un’istituzione, di un ordinamento. Il “taglio delle poltrone” dei Cinque stelle non è una riforma. Come ha sostenuto lo stesso Pd, “è solo uno spot elettorale”. Infatti, nonostante le ragioni del nostro bicameralismo ripetitivo siano venute meno (perlomeno) dal crollo del Muro di Berlino, le due Camere continueranno a fare le stesse cose e ad avere gli stessi poteri. Il provvedimento, dunque, lascia inalterati tutti i problemi più urgenti del nostro sistema istituzionale (incluso lo spreco di denaro, di tempo e di energie) e, semmai, ne crea degli altri (gli equilibri dell’elezione del presidente della Repubblica, la rappresentanza delle regioni piccole, delle minoranze, ecc.).


Non sta scritto poi da nessuna parte che, fatta una riforma insignificante, ci sarà in seguito la volontà politica di fare quelle che contano davvero. Basterebbe, ad esempio, ricordare il referendum “sull’acqua pubblica”. Quel referendum (e il nicodemismo del Pd di Bersani) ha ottenuto solo un risultato: impedire, come ha ricordato Alessandro De Nicola due anni dopo, “che la gestione dell’acqua fosse affidata attraverso gare competitive a chi era in grado di farlo in modo più efficiente ed economico e potesse anche investire in modo adeguato. In gioco non era la ‘privatizzazione’, come si è voluto in malafede far credere, ma la competizione”. Dopo dieci anni, manco a dirlo, non è cambiato nulla: la situazione in Italia era e resta catastrofica: “Gli acquedotti perdono tra 1/3 e il 40 per cento dell’acqua che trasportano, in alcuni posti le società pubbliche erogano arsenico, il 15 per cento della popolazione non è raggiunta dal sistema fognario e non ci sono i 65 miliardi necessari per rimettere a posto l’infrastruttura e portarla a livelli europei”.


Il taglio, inoltre, con la scusa di correggerne gli effetti, aprirà la strada al ritorno al proporzionale, che non ha niente a che fare con l’esigenza di rappresentare meglio i cittadini e serve invece (come fanno da sempre le leggi proporzionali) a demandare ai vertici dei partiti il potere di fare e disfare i governi. Malgrado ventisette anni fa i cittadini abbiano risposto inequivocabilmente alle domande alla base di un altro referendum, quello del 1993 (Sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo? E questo risponde ai partiti o ai cittadini?), e scaricando, per giunta, un’altra volta sulla legge elettorale (come è successo nel 1953, e poi nel 1993 e infine nel 2005) tutte le tensioni derivanti da una forma di governo che non è mai stata in grado di garantire la stabilità. Ma il peggio è che, archiviando l’idea di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza, diamo una risposta negativa alla domanda di fondo che abbiamo davanti dalla fine degli anni’70, da quando in Italia si discute di riforme istituzionali: l’Italia può diventare una democrazia parlamentare “normale”? Facciamocene una ragione, non si può. Perché? Perché c’è Salvini (prima c’erano Craxi, Berlusconi e persino Renzi). Perché, in altre parole, bisogna “salvare l’Italia”. Ed è quest’idea, più ancora della forza di attrazione dell’anti-parlamentarismo, che rischia di sancire la sconfitta definitiva dei riformisti, l’impossibilità per la sinistra italiana di emanciparsi dal lascito di Berlinguer. Come hanno messo in evidenza Paggi e D’Angelillo già negli anni 80, il Pci non è infatti mai riuscito a passare dall’arte di “salvare l’Italia” a quella di governare in condizioni di normalità. Ma il centrosinistra non deve “salvare” l’Italia, dovrebbe fare le riforme. 


Alessandro Maran
già deputato e senatore del Pd


 

I dati e i numeri che servono per far decidere un ingegnere

L’argomento non mi appassionava particolarmente, in questo periodo con la pandemia avevamo certamente altro a cui pensare, ma siccome è stato indetto un referendum sul taglio del parlamentari, ho deciso che dovevo fare il mio dovere di cittadino, informarmi e provare a prendere una decisione razionale.
Inizialmente, ho letto un po’ le opinioni espresse online:
- qualcuno dice che dobbiamo tagliare i parlamentari per ridurre i costi;
- qualcuno dice che non dobbiamo tagliare i parlamentari perché così facendo sarebbe messa in pericolo la democrazia: meno parlamentari significa meno rappresentatività;
- molti si limitano al tifo calcistico, votando A per simpatia con Tizio, o B per antipatia con Caio.


Purtroppo, nessuno esprime una posizione basata su evidenze oggettive, su analisi scientifiche, su dati numerici.
Sarà che sono ingegnere, ma a me questo sembra un tipico problema di Ottimizzazione, per la risoluzione del quale serve un approccio matematico, purtroppo poco diffuso tra i politici. Allora ho cercato se esistevano studi scientifici su questo tema e ho trovato un articolo del 2008 dal titolo “On the Optimal Number of Representatives” di Emmanuelle Auriol e Robert J. Gary-Bobo, e l’ho studiato bene. Secondo questo testo, in una democrazia rappresentativa il numero ottimale dei rappresentanti in parlamento è un compromesso tra due esigenze contrastanti:
- da una parte, si vuole che i rappresentanti siano tanti, in modo che possano catturare e rappresentare in maniera efficace la ricca varietà di posizioni che stanno nella società, e che non sia troppo facile per loro mettersi in combutta per cospirare alle spalle dell’elettorato;
- dall’altra, si riconosce che un rappresentante comporta un costo e che se sono tanti è più facile fomentare la confusione, quindi è bene limitare il numero il più possibile.


Due citazioni prese dal dibattito che si stava svolgendo nel 1787 tra i Padri fondatori americani, mentre stavano scrivendo la Costituzione, risultano particolarmente illuminanti:
“Prima di tutto va notato che, per quanto piccola possa essere la Repubblica, i Rappresentanti devono essere almeno un certo numero, per proteggere contro le cospirazioni dei pochi; e per quanto grande possa essere, devono essere divisi per un certo numero, per proteggere contro la confusione della moltitudine” (James Madison, Federalist 10,  1787).
“Il termine stesso, rappresentante, implica che le persone scelte per questo scopo debbano assomigliare a chi li elegge. Coloro che sono messi al posto del popolo, devono possedere le stesse opinioni, gli stessi sentimenti ed essere guidati dagli stessi interessi o, in altre parole, devono assomigliare il più possibile a coloro che sostituiscono” (Brutus III, 1787). Modellando matematicamente queste due esigenze, con una rappresentazione quantitativa del “costo” (in senso lato) di entrambi gli effetti, si arriva a dimostrare che esiste un numero ottimale di rappresentanti, ottimale nel senso che esprime il miglior compromesso, e che tale numero è proporzionale alla radice quadrata della popolazione.


L’articolo procede allora a testare empiricamente questa ipotesi, applicando la formula ai parlamenti nazionali di oltre 100 paesi nel mondo, e riscontrando che la gran parte di essi hanno un parlamento dimensionato con numeri molto vicini a quelli previsti dalla teoria. Tra quelli di grandi dimensioni, soltanto tre sono quelli che deviano in maniera significativa: gli Usa hanno un parlamento molto più piccolo di quanto servirebbe, Italia e Francia ce l’hanno molto più grande. In particolare, per l’Italia il numero ottimale di parlamentari sarebbe 570 mentre invece noi ne abbiamo 945 (più i senatori a vita). Con una differenza di +375 siamo il paese che ha, in valore assoluto, il maggiore eccesso di rappresentanti al mondo.


Ok, abbiamo stabilito che noi abbiamo un eccesso di parlamentari, ovvero troppi rispetto al numero ottimale. Ma non sarà che il nostro paese sia diverso dagli altri e abbia bisogno di più rappresentanti perché, ad esempio, il nostro elettorato è internamente più diversificato? In linea teorica, potrebbe essere ad esempio che, a causa della nostra storia, diverse parti del paese abbiano opinioni e interessi molto diversi e, per canalizzare le proprie preferenze, abbiano quindi bisogno di un più stretto contatto con i rappresentanti (ovvero un più basso numero di elettori per parlamentare). Bisogna però notare che, tra i fattori che possono portare a questo effetto, ci sono ad esempio: uso di lingue diverse tra la popolazione, dispersione geografica nel territorio, radici culturali o religiose di matrice diversa, maggiore divaricazione delle condizioni economiche tra ricchi e poveri (ad esempio coefficiente Gini). A ben guardare, sono tutti fattori per i quali il nostro paese è posizionato meglio di tanti altri. A me non sembra che siamo più variegati degli altri.


Ok, però i parlamentari rappresentano un canale di comunicazione che permette ai cittadini di trasmettere le proprie preferenze ai loro rappresentanti in Parlamento. Negli Usa, ad esempio, è un classico che, quando c’è qualche proposta impopolare, gli attivisti per lamentarsi chiamino l’ufficio del membro del Congresso a cui fanno riferimento. E’ possibile che questa capacità di interagire con i rappresentanti sia compromessa se questi ultimi diventano di meno? Per capirlo ho fatto un piccolo sondaggio tra i miei contatti su Twitter, sono solo 23 risposte, non è certo statisticamente significativo, però la polarizzazione del risultato è notevole: alla domanda “Tra tutti quelli che stanno in Parlamento, sapresti indicare il nome del singolo deputato e il nome del singolo senatore che rappresentano te?” ha risposto Sì il 17,4 per cento, No l’82,6 per cento.

 

Si vede che il radicamento dei rappresentanti sul territorio non è più così forte come una volta. La cosa non sorprende: sempre più le persone si spostano e si mescolano, abitano in una regione ma lavorano in un’altra, e magari hanno i familiari in un’altra ancora (io sono un classico esempio). Tra l’altro, questo fenomeno sta velocemente accelerando a causa dello sviluppo dello smart working forzato dalle restrizioni Covid-19. E poi ormai sempre di più si comunica online, con i tweet, con i post, e meno con i comizi.

 

Ok, abbiamo stabilito che abbiamo un eccesso di parlamentari e che tornare a una dimensione “normale” non farebbe danni. Ma che problemi ci crea il mantenimento dello status quo? Se il problema fosse solo nel costo per gli stipendi, forse non sarebbe così grave, ma l’analisi di Aubriol e Gary-Bobo prosegue proponendo alcune ipotesi più preoccupanti:
- da un punto di vista della capacità di un paese di generare imprese e ricchezza, i dati mostrano che l’ingerenza dello stato nel mercato e il costo necessario per le pratiche di apertura di una attività sono entrambi sistematicamente maggiori nei paesi che hanno un eccesso di parlamentari; 
- sembra ragionevole spiegare questa correlazione pensando che, se ci sono più parlamentari del necessario, questi siano indotti a una sovra-produzione di leggi e regolamentazioni, aumentando la burocrazia;
- l’evidenza empirica dei dati mostra inoltre che i paesi con un eccesso di rappresentanti sono i più corrotti – anche qui sembra ragionevole che, a causa della maggiore burocrazia spiegata al punto precedente, sia più facile trovare appigli per la corruzione.


Il nostro paese è notoriamente afflitto dai problemi suggeriti nell’analisi e, anche se non possiamo dire con certezza che l’eccesso di parlamentari sia uno dei fattori causanti, certamente trovare un modo per mitigare questi problemi sarebbe un risultato ben più importante rispetto ai pochi milioni di euro che potremmo risparmiare pagando meno stipendi ai parlamentari. Giunto a questo punto, per confermare la solidità di questi ragionamenti, sentivo il bisogno di maggiori evidenze, così sono tornato a cercare studi scientifici, questa volta relativi alla correlazione tra corruzione e numero di parlamentari. Su questo tema ho trovato uno studio svedese del 2017, intitolato “More politicians, more corruption: evidence from Swedish municipalities”, di Andreas Bergh, Günther Fink e Richard Öhrvall. In questo studio viene analizzato il livello di corruzione nelle diverse municipalità svedesi e, in base ai dati, si giunge alla conclusione che, in effetti, i municipi più corrotti sono con maggior frequenza quelli che hanno un eccesso di rappresentanti.


Infine, anche se su questo tema non ho trovato letteratura scientifica per il contesto specifico della democrazia rappresentativa, la mia esperienza mi fa ipotizzare che un eccesso di rappresentanti possa portare anche a una generale diminuzione di efficacia del processo legislativo. Infatti, come ben noto a chiunque si occupi di project management e organizzazione del lavoro, al crescere di una organizzazione o di un team, la capacità individuale scende, consumata dalla complessità organizzativa.


Ad esempio, avere a bordo più persone del necessario può allungare i tempi del progetto, invece di accorciarlo. Questo succede perché il numero di possibili coppie tra membri del team cresce in maniera quadratica e ognuna di queste coppie è una opportunità per incomprensioni e difetti di comunicazione. Se le persone aumentano da 600 a 945, diventa 248 per cento più faticoso il coordinamento, stabilire un gergo condiviso, instaurare un rapporto di fiducia, raggiungere un accordo, e per gestire questa maggiore complessità si finisce inesorabilmente per creare più procedure, più burocrazia. Oppure si fornisce al governo una scusa per bypassare l’inerzia del Parlamento usando la decretazione d’urgenza.


Ok, quindi ricapitolando:
- la teoria dice che per il nostro paese la dimensione ottimale del Parlamento sarebbe 570, con +375 siamo il paese con il maggior eccesso di parlamentari al mondo;
- non ci sono motivi per credere che il nostro paese sia diverso dagli altri, quindi non abbiamo basi per sostenere che un taglio dei parlamentari rappresenti un pericolo per la democrazia;
- evidenze empiriche mostrano che, oltre ai costi, mantenere questo eccesso di parlamentari produce burocrazia, ingerenza dello stato nell’economia, corruzione, minore efficacia del processo legislativo.


Per questi motivi ho deciso di votare Sì. Questo non significa che io pensi che questo referendum sia ottimale. Personalmente, credo che sarebbe stata meglio una riforma organica, che non si limitasse ad agire solamente sul numero dei parlamentari. Tuttavia, nella mia esperienza di manager ho imparato diverse cose:
- l’ottimo è nemico del bene e, se intanto abbiamo la possibilità di ottenere un risultato parziale, meglio un uovo oggi che una gallina domani;
- cambiare qualcosa è un ottimo modo per innescare il cambiamento di qualcos’altro;
- se non cambi mai niente, non cambierà mai niente!


Simone Piunno
Chief Technology Officer, 
Università Bocconi


 

Se vincerà il No, si darà vita  all’ennesima, inutile bicamerale

Sono stato nel 1991 e nel 1993 segretario generale del Comitato per i referendum elettorali, i due referendum che, introducendo il primo la preferenza unica e il secondo il maggioritario uninominale, cambiarono il volto del paese e, con presidente Mario Segni, ma anche con il supporto di Augusto Barbera, Peppino Calderisi, Giovanni Bianchi, Marco Pannella, Alfredo Biondi, Vito Riggio, Bartolo Ciccardini, Stefano Ceccanti, cambiarono il corso della storia politica italiana superando il proporzionale puro e introducendo un sistema elettorale europeo basato sul principio della scelta dei governanti direttamente da parte degli elettori. In realtà il Comitato referendario era al suo interno diviso tra chi, come Mario Segni e molto più modestamente il sottoscritto, propendeva per il modello ordinamentale francese con la elezione diretta del presidente della Repubblica e il sistema uninominale con ballottaggio a doppio turno e chi, invece, con Marco Pannella sosteneva il sistema elettorale inglese con l’uninominale e il principio del “who wins takes all”. Su quel periodo storico si è molto scritto e molto bisognerà ancora approfondire, considerando che a mio avviso fu la spinta referendaria a cambiare il corso della Storia e non l’azione del pool della Procura di Milano. A quattro anni dalla bocciatura infausta della riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi, che pur presentava, come naturale che sia, aspetti contraddittori, ma avrebbe comportato una forte accelerazione verso una maggiore efficienza e sostanziale democrazia del paese, se si pensa soltanto alla scelta monocamerale alla netta ripartizione delle competenze tra stato e regioni, alla soppressione del Cnel e così via, ci troviamo domenica prossima davanti una scelta referendaria che incide pochissimo sul tessuto costituzionale, ma in cui le ragioni per votare Sì prevalgono nettamente su quelle del No. 

Io voterò Sì per tre modesti motivi. 1) Quando nel 1963 fu fissato l’attuale numero di parlamentari non esistevano le regioni e il Parlamento europeo. Lo stato era al centro del potere legislativo. Con la riforma costituzionale del 2001 e il principio della sussidiarietà verticale molte competenze sono state attribuite alle regioni con l’elezione diretta di 884 consiglieri regionali. Inoltre, in applicazione dell’art. 11 della Costituzione, numerose competenze sono state cedute alle istituzioni europee e allo stesso Parlamento europeo ove siedono 751 deputati di cui 76 italiani (che aumenteranno con il definitivo completamento del processo della Brexit). 2) Se vincesse il No alla modifica costituzionale per la seconda volta (dopo il No alla riforma Renzi) nessuno proporrà una riforma ordinamentale che tutti ritengono improrogabile. Anzi prevedo che si darà vita all’ennesima commissione bicamerale per le riforme istituzionali che non produrrà alcun effetto. 3) Ho promosso e votato Sì al cambiamento nei referendum Segni del ‘91 e del ‘93, ho votato Sì al testo di riforma proposto da Renzi quattro anni fa, così voterò domenica prossima senza farmi condizionare dal fatto che nello stesso modo voterà il Movimento 5 stelle, le cui tesi non ho mai condiviso in alcun punto. 


Cesare San Mauro
professore di Diritto dell’Economia, Università La Sapienza, Roma


 

Vale la pena dire No alla riduzione dei parlamentari per dire No ai grillini?

Chiariamo un equivoco: il referendum non è sulla Costituzione ma su una legge (la n. 2 del 1963) che l’aveva modificata aumentando il numero dei parlamentari agli attuali 945, eliminando il criterio originario che lo calcolava in misura variabile in rapporto alla popolazione.


Decidere sulla riduzione dei parlamentari (400 alla camera, 200 al senato) è però un voto politico: le riforme costituzionali degli ultimi decenni sono state legate a strategie partitiche. Nel 2006 il referendum fu un plebiscito su Berlusconi; nel 2016 su Renzi. La riduzione dei parlamentari potrebbe diventare un referendum sul Movimento 5 stelle. Anche i costituzionalisti sono in fondo cittadini, e possono fare battaglie politiche, ma senza nascondersi dietro i principi della propria disciplina. Questo l’ha detto (finalmente) anche Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 agosto 2020).

 

La domanda da fare è allora questa: vale la pena dire No alla riduzione dei parlamentari per dire No ai grillini? Riavvolgiamo il nastro: il progetto pentastellato prevedeva, insieme al “taglio” dei parlamentari, anche un’improbabile abolizione del divieto di mandato imperativo (per condizionare la libertà politica degli eletti), e l’introduzione del referendum propositivo (per creare un canale di legislazione popolare alternativo a quello parlamentare). Nel complesso era un progetto non solo antiparlamentare ma addirittura eversivo dei principi del costituzionalismo, prima ancora che della Costituzione. Cadute le proposte più laceranti, la riduzione del numero dei parlamentari, a mio avviso, non pone più alcun serio problema di ordine costituzionale.


Anche se le motivazioni di fondo fossero quelle, oggi non siamo chiamati a fare un processo alle intenzioni, ma a decidere di una riforma sul tappeto da circa trent’anni, dalla Commissione Bozzi in poi (fino ai progetti di legge presentati da chi oggi è per il No). Per quelli a sinistra va ricordato che la riduzione dei parlamentari fu avanzata dal Partito comunista fin dagli anni Ottanta: forse per contrastare il presidenzialismo di Craxi, ma sicuramente per favorire la semplificazione del quadro politico e per arrivare all’agognato monocameralismo.

 

Al di là delle intenzioni, il punto essenziale è che il referendum contribuisce a dare una nuova centralità al Parlamento. Un numero ridotto valorizza il merito, la competenza, la visibilità dei parlamentari e, quindi, il buon funzionamento del Parlamento, anche nei confronti del governo (lo ricorda il Fatto quotidiano del 24 agosto riportando utilmente i lavori della Costituente; ma anche Valerio Onida, la Repubblica 25 agosto). E’ noto da sempre che assemblee pletoriche non assicurano nessuno degli obiettivi per cui è necessario un parlamento. Non è un caso che il numero dei rappresentanti è inversamente proporzionale al tasso di democraticità di un paese, come dimostrano le assemblee plaudenti di Cina, Corea del Nord e dell’ex Urss. XNei parlamenti troppo numerosi, del resto, la libertà dei singoli è compressa dallo strapotere dei gruppi: la “gruppocrazia” al limite concede la parola al singolo parlamentare solo in dissenso e solo per pochi minuti!

 

La modifica proposta potrà permettere altre riforme: sicuramente la riscrittura dei regolamenti parlamentari (che dovrà seguire, e non precedere, la riduzione, come qualcuno in modo bizzarro sostiene); ma anche per migliorare la dialettica governo-parlamento, o i rapporti tra stato e regioni. Un parlamento con due camere più contenute potrà svolgere una migliore funzione di controllo su chi governa (abbiamo presente lo squallore di un ministro o del premier che ripete lo stesso discorso alla Camera e al Senato?). In un successivo passo si potrebbe valorizzare il Parlamento in seduta comune per controllare l’azione dell’esecutivo o addirittura per votare la fiducia al governo. Si potrà ritornare su un’auspicabile riforma del bicameralismo: o nella direzione del monocameralismo, o verso un Senato delle autonomie in cui le regioni possano esprimere finalmente una posizione comune su problemi generali (evitando il “fai da te”, come nella gestione del Covid).

 

La questione della legge elettorale, la cui mancata riforma renderebbe monca secondo una diffusa vulgata la riduzione dei parlamentari, diciamolo chiaramente, non c’entra nulla: la revisione non ha nessuna conseguenza sul tipo di formula elettorale. Le regole elettorali andranno scritte, certo; ma la scelta non dipende affatto dal numero degli eleggibili, ma dai contingenti rapporti di forza. Un Parlamento più snello è compatibile sia con il proporzionale puro sia con il maggioritario. Se oggi alcuni insistono sulla riforma elettorale è perché si vuole impedire una maggioranza salviniana, o per ridurre il potere di condizionamento di partiti come quello di Renzi o di Calenda. Tutto ciò è politicamente legittimo, ma non ha nulla a che vedere con il diritto costituzionale (sostenere il contrario ci farebbe correre il rischio di fare gli “utili idioti”).

 

Archiviate le “grandi riforme”, questa volta il referendum, come auspicato da molti costituzionalisti, pone una domanda secca e semplice a favore della sola riduzione dei parlamentari. Non dimentichiamo che questa modifica è stata approvata da quasi tutti i rappresentanti nell’ultima e decisiva deliberazione. Una scelta trasformistica da parte di coloro che hanno detto Sì in Aula e ora fanno campagna elettorale per il No, oltre a risultare incomprensibile razionalmente, aumenterebbe ancora di più la sfiducia nei confronti del nostro Parlamento.


Andrea Morrone
ordinario di Diritto costituzionale, Università di Bologna

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