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il post-voto al nazareno

Così i tatticismi romani renderanno difficile spodestare Zingaretti

Valerio Valentini

Guerini incoraggia Bonaccini, ma al tempo stesso offre la mano al segretario. "Occhio che se non ti fai aiutare da noi, tornano i Ds con Orlando", dicono i riformisti a Nicola. E lui attende: sa che il suo destino s'intreccia a quello di tanti, da Conte in giù

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Chi è abituato a parlarci di frequente dice che quel suo prendere tempo, quella sua canonica cautela democristiana, s’è colorata di una sfumatura luciferina, in questa vigilia elettorale. “La leadership di Zingaretti non si discute, per il momento”, dice insomma Lorenzo Guerini ai suoi parlamentari, come a volerli tenere a freno. E loro, ovviamente, più che altro si concentrano su quella precisazione finale, “per il momento”. Che è poi la stessa che il ministro della Difesa usa anche con chi, tra i suoi, gli chiede cosa fare con lo scalpitante Stefano Bonaccini: “Diamogli una mano, per il momento”. E in questo equilibrismo sta in fondo il senso dell’attesa del compiersi degli eventi, che riguarda non solo Base riformista, ma tutto il Pd. Perché, se è vero che il correntone diretto appunto da Guerini insieme a Luca Lotti non è abbastanza forte da poter pianificare in anticipo il ribaltamento degli equilibri del Nazareno, non è neppure abbastanza debole, soprattutto tra i gruppi parlamentari che controlla, per essere aggirato nei giochi che s’apriranno lunedì, quando il risultato delle regionali sarà definito. 

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Chi è abituato a parlarci di frequente dice che quel suo prendere tempo, quella sua canonica cautela democristiana, s’è colorata di una sfumatura luciferina, in questa vigilia elettorale. “La leadership di Zingaretti non si discute, per il momento”, dice insomma Lorenzo Guerini ai suoi parlamentari, come a volerli tenere a freno. E loro, ovviamente, più che altro si concentrano su quella precisazione finale, “per il momento”. Che è poi la stessa che il ministro della Difesa usa anche con chi, tra i suoi, gli chiede cosa fare con lo scalpitante Stefano Bonaccini: “Diamogli una mano, per il momento”. E in questo equilibrismo sta in fondo il senso dell’attesa del compiersi degli eventi, che riguarda non solo Base riformista, ma tutto il Pd. Perché, se è vero che il correntone diretto appunto da Guerini insieme a Luca Lotti non è abbastanza forte da poter pianificare in anticipo il ribaltamento degli equilibri del Nazareno, non è neppure abbastanza debole, soprattutto tra i gruppi parlamentari che controlla, per essere aggirato nei giochi che s’apriranno lunedì, quando il risultato delle regionali sarà definito. 

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Nell’attesa, allora, i riformisti si tengono aperte entrambe le strade. E così, nel giorno stesso in cui il fedelissimo di Guerini, Alessandro Alfieri, coordinatore di Br, organizzava un incontro pubblico nella sua Varese insieme al presidente dell’Emilia-Romagna, il portavoce di Br Andrea Romano interveniva nel frattempo in direzione nazionale per assicurare piena copertura al Sì sul referendum annunciato da Zingaretti, insomma sotterrando l’ascia di guerra prima che qualcuno potesse anche solo lasciarsi tentare da intenzioni bellicose. Tatticismi, certo. Anche di questo si nutre la politica. “Zingaretti sa che se vuole tenere insieme il partito, se vuole evitare il ritorno dei Ds, deve chiederci una mano”, dice un esponente di governo del Pd di rito lottian-gueriniano.

 

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E il congiurato evocato da tutti, l’accoltellatore da cui i pretoriani riformisti dovrebbero proteggere Zinga, viene indicato da tutti nel profilo sfuggente di Andrea Orlando. Il quale, pure lui attendista comme il faut, ha deciso di anticipare le danze e invocare subito un qualcosa che assomigli a un rimpasto, un riassetto degli equilibri e degli orientamenti del partito. E però certo non sarà né troppo ingenuo né troppo spregiudicato, l’ex Guardasigilli, da aprire il fuoco per primo, lunedì. Così, almeno, assicura chi lo conosce bene, spiegando che “semmai Andrea spronerà Zingaretti a percorrere con più convinzione la strada che ha già imboccato”, e cioè quella della ricostruzione di un’identità netta e definita, e una strategia delle alleanze che passi da un’intesa stabile col M5s. Una linea che dai riformisti verrebbe appunto vista – per quanto ingenerosa sia la sintesi – come il ritorno alla Ditta, il mettere in pratica il teorema caro a Goffredo Bettini, lo stratega di Zingaretti che però ancora non è riuscito a convincere – non del tutto, almeno – il suo figlioccio politico. Come che sia, Graziano Delrio s’è trovato a dover recepire l’altolà preventivo di tanti suoi deputati che, paventando un accordo di vertice tra il segretario e il suo vice, hanno rispolverato il regolamento del gruppo parlamentare: “Se Zingaretti pensa di imporci Orlando come capogruppo alla Camera, la proposta verrà messa ai voti, e non passerà”.

 

Baruffe correntizie che Bonaccini, dalla  Bologna dove ieri sera è intervenuto alla Festa dell’Unità, osserva col recitato distacco di chi vuole dar mostra di pensare ai problemi reali del paese, e parla sempre d’altro, forte del sostegno di chi, come l’emiliano Delrio, gli spiega che è già successo con Matteo Renzi, e può dunque anche risuccedere, che il podestà straniero travolga i tatticismi romani e sparigli gli equilibri dei caminetti: “Se Stefano parte – dicevano ieri sera a Bologna dirigenti emiliani del Pd – e sindaci come Gori e Nardella gli andranno dietro, allora non c’è timidezza di Lotti e Guerini che tenga: si andrà a congresso”. Di certo, lunedì Bonaccini dirà che il Mes va votato subito in Parlamento, che “il rispetto dei patti non può essere unilaterale”. E forse qualche frecciata la lancerà, più che a Zingaretti, al suo entourage romano, che sotto le Due Torri chiamano, con non troppa fantasia e non troppi garbo, “l’amatriciana magica”.

 

In mezzo starà il segretario, a dover commentare un risultato che potrebbe essere mediocre, pure ammesso che la Puglia cada al centrodestra e in Toscana vinca Eugenio Giani, ma che certo non potrà essere imputato solo a lui: perché se Raffaele Fitto la spunterà, sarà stato per la cocciutaggine del M5s che non ha voluto l’accordo, per l’incapacità di Giuseppe Conte a vincere quella cocciutaggine, e magari per il sabotaggio di Matteo Renzi e Carlo Calenda. Alibi, dirà qualcuno: ma che potrebbero bastare a Zinga per poter dire che, tolto lui, nessun equilibrio di maggioranza e di governo diventa scontato. Come sa, in fondo, anche Dario Franceschini. Il quale attenderà che si depositi il polverone, prima di indicare la rotta. 

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