PUBBLICITÁ

Le regioni cinquant’anni dopo

Sabino Cassese

Per che cosa votiamo. Il loro ruolo, i conflitti, gli errori (dall’autonomia incompiuta alla spesa, alla burocrazia). Sarebbe ora di ridurne il numero e aumentare la cooperazione

PUBBLICITÁ

Comincio dalla domanda: perché le regioni vengono 22 anni dopo la previsione costituzionale di uno Stato regionale? Passo poi a fare qualche riflessione su quello che è successo in questi 50 anni e a valutare la performance delle regioni: siamo contenti delle regioni, sono state un successo? Per indicare, alla fine, qualche punto in termini di proposta: “che fare”? come si chiedeva all’inizio del ’900 Lenin.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Comincio dalla domanda: perché le regioni vengono 22 anni dopo la previsione costituzionale di uno Stato regionale? Passo poi a fare qualche riflessione su quello che è successo in questi 50 anni e a valutare la performance delle regioni: siamo contenti delle regioni, sono state un successo? Per indicare, alla fine, qualche punto in termini di proposta: “che fare”? come si chiedeva all’inizio del ’900 Lenin.

PUBBLICITÁ

 

Le regioni arrivano 22 anni dopo la previsione costituzionale. La Costituzione aveva previsto le regioni come un modo per integrare la democrazia attraverso il pluralismo. Ci fu poi quello che Leopoldo Elia chiamò “un eccesso di continuismo”. Si volle continuare con lo Stato centralizzato. E solo negli anni 60 comincia il disgelo costituzionale. Nel ’62 la scuola media unica è uno dei grandi cambiamenti del secondo dopoguerra. Segue il movimento del ’68 e si afferma, sotto la pressione di tutte le forze politiche, l’idea che bisogna fare le regioni – ripeto lo slogan di quell’epoca – “per la salvezza dello Stato”. 

 

PUBBLICITÁ

Che cosa è successo in questi 50 anni di regionalismo? Possiamo dire che le regioni hanno avuto una dotazione di funzioni molto rallentata, perché i consigli regionali vengono eletti nel 1970, però un primo trasferimento di funzioni da parte dello Stato avviene nel ’72, e un secondo nel ’77. Il servizio sanitario nazionale farà un grande cambiamento nel ’78. Poi ci saranno i decreti legislativi Garavaglia del ’92 e ’93. Un ulteriore trasferimento nel ’98. E, infine, le regioni come le conosciamo oggi nel 2001 con la modifica costituzionale. 

 

Ma questo non basta, perché riguarda solo le funzioni. Dobbiamo parlare anche delle strutture. E nelle strutture c’è un cambiamento radicale che avviene nell’ultimo decennio del secolo scorso: la presidenzializzazione delle regioni. Questa doveva essere la sperimentazione di un meccanismo da introdurre poi anche all’interno dello Stato. 

 

Quindi questo cinquantennio, da un punto di vista delle funzionalità delle regioni, è diviso in due parti: nel primo trentennio si mettono le basi. Poi c’è un secondo ventennio, quello che si apre col nuovo secolo, in cui le regioni cominciano a lavorare al ritmo spedito di regioni presidenziali, dotate di tutte le funzioni. 

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Paradossalmente, invece, in questo periodo c’è un calo di partecipazione politica e di consenso politico intorno alle regioni. Si parte da una fase nella quale il 90 per cento dell’elettorato partecipa alle elezioni regionali, e si arriva a una fase, che è quella attuale, in cui la partecipazione alle elezioni regionali oscilla tra un terzo e il 60 per cento dell’elettorato. Quindi, questo cinquantennio è caratterizzato da un rafforzamento funzionale, ma nello stesso tempo – paradossalmente, perché ha un andamento contraddittorio – da un indebolimento di rappresentatività e di forza rappresentativa delle regioni. 

 

PUBBLICITÁ

Passo al mio terzo punto, che è quello relativo alla “performance”. Possiamo dire che le regioni siano state un successo? Prendo tre test. Il primo parte da una citazione. De Gasperi interviene all’Assemblea costituente il 29 gennaio del 1948 (siamo in uno degli ultimi giorni dell’Assemblea costituente, si discute dello statuto della regione Trentino-Alto Adige, e dice le seguenti parole: “Le regioni si salveranno, dureranno, resisteranno, solo a una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale. Migliori soprattutto per quanto riguarda le spese”. E’ una bella affermazione, fatta in termini generali, una parentesi, fuori dal contesto specifico, perché si riferisce a tutte le regioni. Da questo punto di vista, le regioni non ce l’hanno fatta, perché non hanno dimostrato di essere migliori dello Stato, specialmente per quanto riguarda le spese.

 

Secondo test. Le regioni sono nate come corpi legislativi: una norma della Costituzione disponeva: svolgeranno le loro funzioni amministrative delegandole ai comuni e alle provincie, o avvalendosi dei loro uffici. Qual era l’idea dietro a questa norma? Che non si dovesse costituire una quarta burocrazia. Avevamo una burocrazia dello Stato, quella del para-stato, quella locale. E non si voleva costituire una burocrazia regionale. Anche qui le regioni non ce l’hanno fatta, perché oggi sono anche, e direi principalmente, dei grandi corpi amministrativi. 

 

E poi c’è un terzo test, un punto quasi dimenticato nel dibattito politico. Nella nostra Costituzione del 1948 si menzionavano all’articolo 119 il Mezzogiorno e le isole, e si prevedevano contributi speciali. Si pensava che l’unità politica del paese non fosse stata accompagnata da un’unità economica del paese, e si voleva superare il divario. Nel 2001 la menzione stessa del Mezzogiorno scompare, perché si pensava che le regioni fossero un fattore di unione dello Stato italiano. Invece lo Stato è ancora disunito. C’è ancora un forte divario tra le regioni del nord e le regioni del sud.
 Vengo all’ultimo punto: che cosa fare? Il primo aspetto che va considerato, ma con attenzione, è quello che riguarda il taglio stesso delle regioni e il loro numero. I primi costituenti pensavano che le regioni dovessero essere non più di 12. Poi nella Costituzione le regioni diventarono 15 più 5, quelle a statuto speciale. Perché e come vennero identificate quelle regioni? Furono identificate sulla base dei compartimenti statistici che erano stati studiati da Pietro Maestri e da Cesare Correnti, due grandi personaggi del nostro Risorgimento che hanno posto le basi dell’organizzazione statistica dello Stato italiano. E i compartimenti erano stati  identificati in base all’ordinamento militare della Roma imperiale, alle legioni militari. Ora, come ha osservato Redcliffe-Maud, l’autore del grande rapporto che ha portato al cambiamento radicale del “self government” inglese (1969), “c’è un momento nel quale, i territori non riflettono più i modelli di vita e di lavoro”. Ed è questo il motivo per cui uno studioso come Miglio, che poi ha ispirato la Lega, o un parlamentare come Morassut, hanno ripresentato il problema della macroregione. Il primo problema quindi è: ci vogliamo interrogare sulla corrispondenza tra le entità amministrative, le regioni, e i modelli di vita e di lavoro delle persone?

 

Secondo problema. Alcune funzioni che lo Stato continua a svolgere, sarebbe bene le svolgessero le regioni, e viceversa. Vi sono funzioni che  sono state trasferite alle regioni, e che oggi dovrebbero essere trasferite nuovamente allo Stato. Oppure dovrebbero essere gestite in un altro modo. Per esempio, la sanità. Perché chiamiamo servizio sanitario “nazionale” il servizio sanitario? Perché dovrebbero concorrere insieme regioni e Stato. Invece abbiamo fatto diventare la sanità italiana la somma di 20 sanità regionali. E questo comporta degli alti costi, anche come abbiamo notato nel corso dell’epidemia.

 

Il terzo punto riguarda la Conferenza stato-regioni. Quello è il luogo nel quale si potrebbe realizzare il regionalismo collaborativo e cooperativo. Perché non viene utilizzata meglio? Perché le regioni sono sempre con gli avvocati davanti alla Corte costituzionale, facendola diventare da corte dei diritti, corte dei conflitti, secondo la bella sintesi di Valerio Onida. 

 

E poi, la differenziazione. Ma certo, ci deve essere la differenziazione. Regioni vuol dire autonomia e autonomia vuol dire differenziazione. Ma il modo giusto per affrontare la differenziazione è quello di parlare del residuo fiscale? 

 

Un ultimo punto, che è un appello, rivolto a quelli che sono impegnati nella politica. Le elezioni regionali come misura del consenso per il governo nazionale. Questo è il dibattito che si sta svolgendo oggi in Italia. Ma è giusto fare questo? O, se lo facciamo, stiamo ri-nazionalizzando le regioni, stiamo usando le elezioni regionali come metro di misura per la legittimazione della classe politico-governativa nazionale? Occorre invece riconoscere che le regioni debbono avere indirizzi diversi, debbono rappresentare il luogo del policentrismo, del pluralismo, dell’autonomia. 

 

Per concludere,  un elemento portante della nostra Repubblica è l’autonomia e, tra le autonomie, l’autonomia regionale. Quindi non competenze a metà, non competenze con il guinzaglio, non limiti all’autonomia. L’autonomia, aggiungo, vuol dire più democrazia, vuol dire più possibilità per il popolo di esprimersi ai diversi livelli di governo. Dobbiamo però riconoscere che c’è una asimmetria: nell’ultimo decennio del secolo scorso si è presidenzializzato il sistema regionale, e non si è presidenzializzato quello nazionale. L’esperienza regionale doveva aprire la strada alla modificazione nazionale. Di qui molti problemi. I governi nazionali sono più transeunti e deboli dei governi regionali. 

 

Detto questo, vedo la necessità di abbandonare il conflittualismo centro-periferia, riscoprendo il modo in cui le autonomie possono collaborare agli obiettivi nazionali, aprendo a un nuovo modo di operare della Conferenza stato-regioni. Perché le regioni che camminano speditamente non aiutano quelle che zoppicano? Apporto collaborativo, capacità di cooperare non vogliono dire soltanto capacità di cooperare in senso verticale, ma anche  in senso orizzontale. Quali sono i modi in cui, attraverso la Conferenza stato-regioni, le regioni possono collaborare con altre regioni? 

 

Secondo aspetto, che è quello proprio del regionalismo tedesco. Il regionalismo tedesco ha scoperto tanti anni fa quello che loro chiamano Gemeinschaftsaufgaben, sostanzialmente compiti comunitari, che richiedono l’esercizio dell’autonomia, la quale in qualche modo però si esercita a Berlino – allora si diceva a Bonn,  noi in Italia diremmo a Roma –  intendendo con ciò  la capacità delle autonomie di darsi carico del compito nazionale. Nazionale non vuol dire statale: vuol dire qualcosa, un compito o una funzione, che riguarda tutte le regioni insieme e quindi le regioni che operano come un tutt’uno, naturalmente con tutti i naturali dissensi e le diversità che ci sono, perché queste non debbono essere eliminate. Secondo me, se le regioni italiane facessero questo passo in più, e invece di vedere tutte zone di conflitto vedessero zone di cooperazione e di collaborazione tra di loro,  non farebbero un’operazione centralistica. Introdurrebbero dei bastoni per quello stato che dire zoppica è un eufemismo, perché  va su una sedia a rotelle, sostanzialmente. Questo è il motivo per cui noi negli anni 60 parlavamo delle regioni come la salvezza dello Stato. Non le regioni che vivono quindi una vita propria separata, ma le regioni che, dando voce ai singoli territori, dando i servizi a questi territori, si fanno anche carico delle regioni che zoppicano e di uno stato che va in sedia a rotelle.

 

Il testo pubblicato è la trascrizione dell’intervento di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale e professore di Global Governance alla School of Government della Luiss Guido Carli, all’incontro “50 anni di regioni: l’architettura dell’Italia alla prova”, all’ultimo Meeting di Rimini.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ