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Le elezioni regionali in Veneto

L'imbattibile Zaia

Si presenta per la terza volta e ora la domanda è: di quanto supererà (stavolta) la Lega con la sua lista?

David Allegranti

Ok, il presidente del Veneto non ha competitor. Ma forse è questo uno dei problemi: al centrosinistra mancano un’agenda alternativa e candidature non improvvisate.

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Gli scommettitori sono concentrati su questo: quanti voti prende Zaia, di quanto vince Zaia sul Pd, di quanto la lista Zaia supera quella della Lega”. Paolo Giaretta, primo segretario del Pd in Veneto, ex senatore, fondatore a suo tempo di una scuola regionale di formazione e di una rivista mensile, spiega lucidamente le ragioni della sconfitta certa del centrosinistra in Veneto, dove i problemi semmai sono tutti per Matteo Salvini, che spera in un successo non troppo trionfale del Doge. Già nel 2015, quando vinse la seconda volta con il 50,08 per cento, la lista Zaia prese il 23,08 per cento contro il 17,82 per cento della Lega. La volta prima, nel 2010, non c’era la lista del presidente ma c’era la Lega Nord - Liga Veneta, che conquistò il 35,16 per cento. 
Le ragioni della scontata vittoria del centrodestra veneto sono dunque dovute a Luca Zaia, che governa con abilità mediatica la Regione da 10 anni e di cui abbiamo già parlato ampiamente in un monografico sul Foglio, ma anche grazie all’assenza di due elementi nell’opposizione: un’agenda pubblica radicalmente alternativa alla Lega e una leadership credibile e strutturata. 
Dice l’ex senatore Giaretta al Foglio: “Zaia è un grande comunicatore, molto presente sul territorio. Ha le caratteristiche del vecchio politico, sa interpretare in modo naturale un senso comune che è diffuso tra la popolazione veneta. Quando ha fatto quell’orribile dichiarazione, di cui poi si è un po’ scusato, quella sui cinesi che mangiano i topi vivi, ha dato voce a una favola che si sente in tutti i bar del Veneto. In molti hanno detto: ecco, lo dice anche lui, ha ragione”.

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Gli scommettitori sono concentrati su questo: quanti voti prende Zaia, di quanto vince Zaia sul Pd, di quanto la lista Zaia supera quella della Lega”. Paolo Giaretta, primo segretario del Pd in Veneto, ex senatore, fondatore a suo tempo di una scuola regionale di formazione e di una rivista mensile, spiega lucidamente le ragioni della sconfitta certa del centrosinistra in Veneto, dove i problemi semmai sono tutti per Matteo Salvini, che spera in un successo non troppo trionfale del Doge. Già nel 2015, quando vinse la seconda volta con il 50,08 per cento, la lista Zaia prese il 23,08 per cento contro il 17,82 per cento della Lega. La volta prima, nel 2010, non c’era la lista del presidente ma c’era la Lega Nord - Liga Veneta, che conquistò il 35,16 per cento. 
Le ragioni della scontata vittoria del centrodestra veneto sono dunque dovute a Luca Zaia, che governa con abilità mediatica la Regione da 10 anni e di cui abbiamo già parlato ampiamente in un monografico sul Foglio, ma anche grazie all’assenza di due elementi nell’opposizione: un’agenda pubblica radicalmente alternativa alla Lega e una leadership credibile e strutturata. 
Dice l’ex senatore Giaretta al Foglio: “Zaia è un grande comunicatore, molto presente sul territorio. Ha le caratteristiche del vecchio politico, sa interpretare in modo naturale un senso comune che è diffuso tra la popolazione veneta. Quando ha fatto quell’orribile dichiarazione, di cui poi si è un po’ scusato, quella sui cinesi che mangiano i topi vivi, ha dato voce a una favola che si sente in tutti i bar del Veneto. In molti hanno detto: ecco, lo dice anche lui, ha ragione”.

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Insomma, il racconto di Zaia – politico e non solo – osserva Giaretta, “sta nelle corde profonde di una parte della popolazione veneta”. Il problema quindi è dell’opposizione che poco fa per contrastarlo seriamente. “Se sei all’opposizione devi offrire un’agenda alternativa a quella di Zaia. Se ti limiti a dire ‘Zaia fa questo ma è un po’ sbagliato, Zaia fa quest’altro ma è un po’ fatto male’ non va bene. Devi avere una tua idea di Veneto”. Giaretta cita un caso tipico: il referendum sull’autonomia. “Il Pd a suo tempo dette un Sì critico, riconoscendo così l’agenda di Zaia. Bisognava invece dire che è una cosa sbagliata, che non era possibile, che il suo non è un modello di federalismo. Per paura, il Pd ha invece riconosciuto l’agenda di Zaia; oltretutto, se  avesse fatto campagna per non votare, certamente non sarebbe stato raggiunto il quorum”. Poi c’è il problema della leadership, aggiunge al Foglio Alessia Duso, avvocatessa e ex leader dei Giovani Democratici di Vicenza: “Ogni volta il Pd Veneto parte dall’anno zero, ci ripetiamo ogni volta dopo la sconfitta che ora è il momento di costruire per il prossimo giro e poi ci troviamo sempre impreparati senza aver costruito nulla e cerchiamo di correre ai ripari con candidati non credibili per i veneti (Alessandra Moretti arrivava da un enorme consenso alle europee e si pensava che bastasse quello e il traino di Renzi). Con Arturo Lorenzoni e altri candidati prima di lui, tipo Giuseppe Bortolussi, si va a pescare nel civismo sperando di allargare la platea dell’elettorato”. Oltretutto, il centrosinistra si presenta spaccato, come in altre Regioni. Anche qui – come in Puglia e in Liguria – Italia viva va da sola con la candidatura della senatrice Daniela Sbrollini. Il Pd invece candida Arturo Lorenzoni, professore universitario, ex vicesindaco civico di Padova, che ha con sé anche la sua lista, Il Veneto che vogliamo.

 


Il problema è strutturale, spiega ancora Giaretta: “Ogni volta il centrosinistra si inventa un leader la settimana prima della campagna elettorale. Invece ci sarebbe bisogno di uno che si presenta, magari perde (il caso di Mitterrand è famoso, vinse solo la terza volta), ma resta per cinque anni e diventa credibile alla tornata successiva. Ancora una volta invece ci affidiamo alle invenzioni dell’ultimo momento, come l’ottimo professor Lorenzoni, buttato allo sbaraglio”. Che ha fatto notizia, purtroppo, solo per essersi ammalato a causa del coronavirus. Insomma, Zaia sarà pure forte ma l’imbattibilità viene garantita anche dallo stesso centrosinistra: “Non si è mai fatta una vera opposizione in consiglio regionale”, aggiunge Duso. “Il Pd nazionale non ha mai capito che il Veneto è una regione con le sue peculiarità e serviva una proposta politica ad hoc. Zaia vince perché parla ai veneti e dei veneti, è uno di loro. Serviva un progetto politico identitario, tutto veneto, che si era cercato di costruire 20 anni fa con Cacciari (‘Insieme per il Veneto’), che facesse leva anche sul famoso federalismo, iniziato dal centrosinistra con la riforma del titolo quinto della Costituzione e mai realizzato”. A un certo punto anche Duso ha mollato l’attività politica: “Quello che ho sofferto io negli anni è stata la totale mancanza di valorizzazione del merito: continui compromessi a ribasso, mediazioni, con conseguente abbassamento costante del livello della classe dirigente del partito”. 
La classe dirigente leghista invece c’è tutta a partire da Zaia che, riprende Giaretta, “governa come un vecchio democristiano, non fa niente e lascia fare. Per tanti anni il modello Veneto ha funzionato così, ma ora sta perdendo colpi. L’economia non marcia più da sola, ha bisogno di una politica che produca i beni comuni. Devi governare il territorio. Le imprese non ce la fanno”. Argomenti per affrontare e incalzare Zaia secondo Giaretta ci sono: “Il governo ha deciso di candidare Milano per il Tribunale europeo dei brevetti, a Torino ci sarà l’agenzia per l’automazione. A Bologna, a Casalecchio sul Reno, il progetto europeo di un mega calcolatore che porta la potenza di calcolo del polo emiliano al quinto posto nel mondo. E il Veneto di cui da 10 anni è governatore? Nei suoi depliant Zaia parla del prosecco, delle olimpiadi invernali che saranno quasi tutte in Lombardia, della Pedemontana che è un cantiere infinito non ancora finito”. 

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Di queste cose però non si parla e l’economia veneta è oggi in fase di rallentamento. La Fondazione Nord Est in un suo rapporto pubblicato nel 2019 sul Pentagono dello sviluppo (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Trentino Alto-Adige, Lombardia) stimava la crescita del Pil nel 2018  dell’1,5 per cento, un tasso superiore alla media nazionale: “La domanda interna aumenta più per il rialzo degli investimenti, +4,4 per cento, che per la spinta dei consumi delle famiglie, +0,8 per cento. Il risultato del 2018 è attribuibile ad una buona performance dell’industria veneta, che registra un aumento del valore aggiunto del 3 per cento, e alla ripresa del settore edilizio, +1,9 per cento. Torna a crescere, dopo un 2017 non entusiasmante, il comparto agricolo (+4,4 per cento) e si conferma contenuta la crescita del terziario (+1 per cento)”. Ma nel 2019, stimava ancora la Fondazione Nord Est, “l’economia veneta registrerà un nuovo rallentamento della fase espansiva che aveva caratterizzato gli ultimi anni: il Pil regionale dovrebbe crescere dello 0,5 per cento, grazie alla spinta del comparto delle costruzioni”. Le costruzioni poi nel 2020 sono state rallentate a causa dell’emergenza sanitaria. 


C’è poi un altro dato che dovrebbe preoccupare il Veneto: “Questa regione, che pure ha università eccellenti, è un debitore netto di studenti, che si laureano qui e poi vanno a lavorare altrove. La Lombardia non è un novità, ma l’Emilia-Romagna sì. Il bilancio del Veneto tra laureati e impiegati è meno quattro, quello della Lombardia è più otto, quello dell’Emilia Romagna è più sedici”, dice Giaretta. L’Emilia-Romagna insomma dovrebbe oggi essere un punto di confronto per il Veneto ma anche uno stimolo per interrogarsi sul proprio stato di salute. La differenza è che l’Emilia-Romagna, dice Giaretta, “ha ripreso a correre più di noi”.
Il debito di neolaureati che vanno via dal Veneto, dice al Foglio Enrico Carraro, presidente di Confindustria Veneto, “è un grandissimo problema, perché noi investiamo nei nostri laureati, che costano. Li aiutiamo a studiare e vanno a lavorare altrove. Il che, per carità, sarebbe una cosa sana se questi poi ritornassero. Il problema è che non ritornano. I giovani vanno nelle grandi aziende dove possono fare carriera e nelle aziende innovative dove possono imparare qualcosa. Il tessuto del nostro territorio è fatto di piccole e medie imprese, un giovane bravo vuole fare carriera in settori dove può trovare uno sfogo professionale. Naturalmente questo non basta, perché per attrarre i giovani serve anche un tessuto culturale propositivo, perché i giovani sono alla ricerca di stimoli e cose interessanti da fare”. Come in Emilia-Romagna. Ma anche questa è una fase, dice Carraro: “Non vivo come un dramma il fatto che oggi in alcuni settori l’Emilia-Romagna sia davanti a noi. L’importante è che la politica non nasconda la testa sotto la sabbia”.


Sono tutte cose però di cui dovrebbe parlare l’opposizione, presentando un’offerta diversa altrimenti la gente, riprende Giaretta, “per disperazione, per convinzione, per mancanza d’alternativa vota Zaia, che tutto sommato è simpatico, va a ogni inaugurazione, tutti i giorni è in tv. Vorrei ricordare che anche in Puglia c’era Aldo Moro, c’era la Dc come da noi. Poi a un certo punto hanno eletto uno come Nichi Vendola. A testimonianza del fatto che le imprese si possono fare. Ma servono una leadership e un racconto”.
Il presidente Carraro ammette che il confronto con altre regioni c’è, è serrato, e che persino il Veneto soffre “ma è abbastanza normale per chi è stato il primo della classe. L’importante è prenderne coscienza e reagire”. L’Emilia-Romagna è diventata negli anni un punto di confronto per il Nord, perché è riuscita ad attrarre dall’estero aziende che volevano investire. Sull’automotive, per esempio. “In Veneto c’è ancora un po’ di reticenza. Io invece dico: benvenute le imprese che dall’estero vogliono lavorare qui”. Anche perché la Regione soffre di uno strutturale “nanismo industriale” e, dice Carraro, aprirsi verso l’esterno permetterebbe “a quelle aziende che non hanno una struttura o la cultura necessaria di affrontare i mercati esteri in filoni interessanti”. Il confronto con l’Emilia-Romagna non deve però spaventare, sottolinea Carraro. La competizione d’altronde è sana, “anche se va detto che noi partiamo da una buona posizione. Spero che da parte della nostra politica ci sia coscienza di questo. Non possiamo vivere sugli allori, serve uno scatto in avanti. Questo è il tempo giusto. D’altronde, come ci diciamo, il Covid cambierà molte cose nel fare business”. Ma Confindustria che cosa si aspetta dalle prossime elezioni regionali? “Io vorrei che la politica riprendesse a fare squadra assieme al mondo dell’impresa. Serve una politica vicina all’impresa, che sappia premiare quella vincente”. Per Carraro non è giusto, in un momento di finanziamenti alle aziende, “dare soldi a pioggia. Anche in questi casi serve la meritocrazia”, dando uno sguardo attento ai bilanci, allo stato di salute delle varie imprese. In più Carraro, che dice di non essere di fondo un autonomista, spera in una Regione forte che possa “alzare la voce” nei confronti di Roma quando c’è necessità. Anche nell’uso di parte dei fondi del Mes, “e speriamo che arrivino presto”. È appena tornato dalla Germania, Carraro, dove ha potuto apprezzare “la potenza dei Länder che in competizione fra loro hanno fatto sviluppare le imprese, e in questo non c’è nulla di male”. Il Veneto insomma deve aprirsi, “la sua vera prospettiva è l’Europa, le cui risorse non possono chiaramente essere gestite direttamente dalle singole regioni ma in concerto fra loro”. Federalismo? Autonomia? I veneti, d’altronde, si sono già espressi nel famoso referendum, per ora rimasto senza conseguenze. 


Ma, certo, anche per questo servirebbe un’opposizione in grado non diciamo di ribaltare l’agenda ma quantomeno di presentarne una credibile. Per incalzare chi governa. Per dire che il Veneto non può puntare solo sulle olimpiadi a Cortina e che gli indicatori macroeconomici già prima del Covid segnalavano la presenza di una difficoltà: “Le misure di distanziamento sociale e la chiusura parziale delle attività nei mesi di marzo e aprile hanno avuto pesanti ripercussioni sull’attività economica della regione”, scrive Bankitalia nel rapporto di giugno sull’economia regionale del Veneto. “La crisi pandemica ha colpito l’economia del Veneto in una fase di pronunciato rallentamento ciclico: Ven-ICE, l’indicatore elaborato dalla Banca d’Italia per misurare la crescita di fondo dell’economia veneta, indica che già nella seconda parte dello scorso anno la fase espansiva si era fortemente indebolita. Nel primo trimestre del 2020 l’indicatore ha bruscamente assunto valori negativi, per la prima volta dall’estate 2013. Le informazioni finora disponibili suggeriscono che nella media di quest’anno la contrazione del PIL in regione possa essere più intensa di quella nazionale che, secondo uno scenario base, potrebbe registrare una flessione del 9,2 per cento”. Con la sospensione di gran parte delle attività commerciali al dettaglio e di quelle dell’industria e dei servizi ritenute non essenziali, “le ripercussioni sull’attività economica sono state repentine e consistenti. Nostre stime indicano che gli effetti del lockdown sono stati relativamente più intensi in regione rispetto al resto del Paese. In Veneto, il blocco delle attività ha infatti riguardato l’equivalente del 34 per cento del valore aggiunto, una percentuale superiore a quella media nazionale (28 per cento)”. Gli effetti della pandemia hanno determinato un drastico calo dei ricavi delle imprese. “Secondo l’indagine straordinaria svolta dalla Banca d’Italia sugli effetti della crisi Covid-19, nel primo semestre del 2020 le imprese venete si aspettano un calo del fatturato di circa un quarto rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. Appunti per il Doge Zaia ma anche per chi vuole provare a batterlo.

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