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Essere (o non essere) Alfonso Bonafede

Dove sta Fofò?

Riforme a metà, gaffe, nemici interni e ministri preoccupati: “Ma come fa a trattare con Franceschini?”

Salvatore Merlo

Inchiesta sulla scomparsa di Alfonso Bonafede. Silenzioso, commissariato e abbandonato dai collaboratori

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Ogni volta che i ragazzi grillini al governo cominciano a compilare la lista dei colleghi ministri che rischiano il posto, insomma quelli un po’ scarsotti, azzoppati, praticamente quelli da sostituire in quel rimpasto cui i sottosegretari  Buffagni, Castelli e Cancelleri guardano come una promessa di felicità, ecco che gli aspiranti ministri iniziano di slancio dalla B di Bonafede. Poi però si fermano un attimo, si osservano perplessi, “no lui non si può”. Scuotono la testa, “è amico di Conte”, dicono, dunque lo depennano e passano direttamente alla C di Catalfo e alla D di De Micheli. E così Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, più noto fra Le Cure di Firenze e Mazara del Vallo  come Dj Fofò, è diventato per i grillini l’inamovibile ectoplasma del governo, il fantasma  di  Via Arenula, il ministro che tutto doveva riformare e  su cui invece è presto precipitata l’ombra del sospetto (“ci è o ci fa”?). Ombra nella quale, bisogna riconoscerlo, lui  si è saputo nascondere fino a scomparire:  dove sta Fofò?  Il ministro e avvocato che confonde il 416 bis con il 41 bis e che si vide accusato  di aver provocato la scarcerazione di alcuni  boss della mafia, sarebbe – in teoria – il capo delegazione del M5s al governo. Insomma il rappresentante del partito di maggioranza relativa. Quello che parla. Quello che tratta. Uno importante. In vista. Ma chi lo vede più? Quando i colleghi del Movimento devono mandare qualcuno a discutere con quelli del Pd, ormai si rivolgono  a Luigi Di Maio o a Riccardo Fraccaro.  La sola  idea che a negoziare su legge elettorale e fondi europei con una volpe come Dario Franceschini possa andare Fofò, provoca tra i ministri grillini inarcamenti di sopracciglia e precipitare di braccia. E non ci sono smorfie da medico al capezzale del moribondo che bastino a esprimere i dubbi di questi uomini (e donne) sulla vitalità del loro collega. Persino il suo portavoce, che si chiama Andrea Cottone, annusata l’aria, se n’è andato a lavorare alla Camera. Fatto di non secondaria importanza, in un Movimento in cui da sempre la comunicazione è più forte del politico.

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Ogni volta che i ragazzi grillini al governo cominciano a compilare la lista dei colleghi ministri che rischiano il posto, insomma quelli un po’ scarsotti, azzoppati, praticamente quelli da sostituire in quel rimpasto cui i sottosegretari  Buffagni, Castelli e Cancelleri guardano come una promessa di felicità, ecco che gli aspiranti ministri iniziano di slancio dalla B di Bonafede. Poi però si fermano un attimo, si osservano perplessi, “no lui non si può”. Scuotono la testa, “è amico di Conte”, dicono, dunque lo depennano e passano direttamente alla C di Catalfo e alla D di De Micheli. E così Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, più noto fra Le Cure di Firenze e Mazara del Vallo  come Dj Fofò, è diventato per i grillini l’inamovibile ectoplasma del governo, il fantasma  di  Via Arenula, il ministro che tutto doveva riformare e  su cui invece è presto precipitata l’ombra del sospetto (“ci è o ci fa”?). Ombra nella quale, bisogna riconoscerlo, lui  si è saputo nascondere fino a scomparire:  dove sta Fofò?  Il ministro e avvocato che confonde il 416 bis con il 41 bis e che si vide accusato  di aver provocato la scarcerazione di alcuni  boss della mafia, sarebbe – in teoria – il capo delegazione del M5s al governo. Insomma il rappresentante del partito di maggioranza relativa. Quello che parla. Quello che tratta. Uno importante. In vista. Ma chi lo vede più? Quando i colleghi del Movimento devono mandare qualcuno a discutere con quelli del Pd, ormai si rivolgono  a Luigi Di Maio o a Riccardo Fraccaro.  La sola  idea che a negoziare su legge elettorale e fondi europei con una volpe come Dario Franceschini possa andare Fofò, provoca tra i ministri grillini inarcamenti di sopracciglia e precipitare di braccia. E non ci sono smorfie da medico al capezzale del moribondo che bastino a esprimere i dubbi di questi uomini (e donne) sulla vitalità del loro collega. Persino il suo portavoce, che si chiama Andrea Cottone, annusata l’aria, se n’è andato a lavorare alla Camera. Fatto di non secondaria importanza, in un Movimento in cui da sempre la comunicazione è più forte del politico.

Il portavoce lo molla, i ministri sorridono, lo scansano e lui si eclissa. E s’intuisce così  una specie di strategia da ultima spiaggia: provocare una soffocata ilarità persino tra gli amici pur di evitare l’indignazione, sparire dai radar confidando che ci si dimentichi che fa il ministro, puntare tutto – nel silenzio – sui suoi antichi legami con il presidente del Consiglio, quel Giuseppe Conte che fu proprio Bonafede a presentare a Di Maio e Salvini schiudendogli il portone di Palazzo Chigi. Ma il fatto è che Fofò, il Guardasigilli che non conosce la differenza tra “colpa” e “dolo”, ne ha combinate di tutti i colori, una dietro l’altra, troppe.   In principio fu la ben nota legge Spazzacorrotti, “scritta così male che rischia di alimentare la corruzione” disse Raffaele Cantone (di cui però adesso si è preso il portavoce), e infatti ben presto dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Consulta dopo che anche l’avvocatura dello stato, tra sarcasmo e svenimenti, ne aveva chiesto la disapplicazione. A quel punto venne anche la cosiddetta riforma della prescrizione, “uno strabismo legislativo” (Gherardo Colombo), “una mostruosità” (Carlo Nordio), “non ci sarebbe niente di male se il ministro dicesse scusate ho sbagliato” (Edmondo Bruti Liberati). E infine arrivò la figura cacina dei tre boss della mafia scarcerati, un pasticcio seguito da un maldestro tentativo di rimettere il dentifricio nel tubetto: “Adesso li arrestiamo di nuovo”. Una progressione tragicomica, culminata con una rottura plateale tra l’esponente del grillismo e l’opinione pubblica grillina, quando Nino Di Matteo, icona dell’antimafia, disse che Bonafede non lo aveva nominato a capo del dipartimento carceri perché “la mia nomina al Dap avrebbe scontentato i mafiosi”. Così il senatore Morra, che vuole fargli le scarpe dal pulpito della commissione Antimafia, ha cominciato a punzecchiarlo. E a un certo punto pure la deputata antimafia e testimone di giustizia, Piera Aiello, quando ha annunciato di voler lasciare l’M5s, quasi quasi ha dato a Bonafede la colpa della decisione. E lui che fa? Che fa Fofò? Sparisce, ovviamente. Puff.   Il ministro che viveva in un abbacinante carosello di dichiarazioni, discorsi e comparsate tivù, ha deciso di calarsi in un oblio con pochi spiragli, quelli dei repertori, generici come gli epitaffi. Dov’è Fofò? E chi lo sa.  Poiché esercita l’attività politica con lo stesso spirito di quello che ha vinto incredibilmente alla lotteria, e quindi custodisce il fortunato biglietto in un doppio fondo cucito nelle mutande, sparisce per restare, trova la sua dimensione nell’assenza, sapendo che di questi tempi in Italia il nulla assume talvolta forme molto concrete. E infatti, ogni volta che lo infilano nella lista dei ministri da cacciare al primo rimpasto, poi ci ripensano.
 

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