Gaetano Salvemini (foto Giovanni Giovannetti, Olycom)

Il volitivo Salvemini e il conflitto con Giolitti e i suoi nipoti (fino a Conte)

Matteo Marchesini

Virtuismo contro pragmatismo. Torna un saggio del ’52

Per un pensatore è piuttosto imbarazzante respingere le conseguenze che con logica impeccabile altri traggono dalle sue premesse. Capitò a Benedetto Croce, che diede al ’900 i mezzi teorici per legittimare le sue tendenze più estremistiche, e poi fece marcia indietro: sì, l’arte è espressione lirica, ma non nel senso della lirica pura; sì, la Storia ha diritto di schiacciare gli uomini, ma non nel senso del fascismo… Croce però superava l’imbarazzo grazie all’idealismo storicista, che giustificando qualunque cambiamento gli permetteva di ritoccare il proprio sistema senza passare per una vera autocritica. Anche i comunisti, del resto in Italia più crociani che marxisti, sfruttarono i riti dello storicismo per assolversi. Chi invece rifiuta di fare della storia un dio, se la realtà non si adatta alle sue idee deve compiere un esame di coscienza un po’ più arduo.

 

È il caso di Gaetano Salvemini, di cui oggi Bollati Boringhieri pubblica un saggio uscito nel 1952 sul Ponte. Il curatore Francesco Torchiani ha sostituito il titolo originario, “Fu l’Italia prefascista una democrazia?”, con quello del paragrafo d’esordio, “La rivoluzione del ricco”. L’espressione, di Giuseppe Ferrari, indica il processo con cui nell’800 la borghesia conquista un suo regime parlamentare prima che i poveri inizino a organizzarsi. Questo regime, raggiunto dagli italiani con l’Unità, concede il voto solo a chi possiede una certa ricchezza: non è quindi democratico, dato che la democrazia presuppone diritti uguali per tutti. Nel Regno d’Italia poi, quando agli elettori per censo cominciano ad affiancarsi gli elettori alfabetizzati, i governanti scoraggiano l’istruzione ed epurano le liste. Il nuovo stato traduce già sul piano pubblico il doppio legame di Bateson: esige dal cittadino alcuni requisiti, ma gli impedisce di procurarseli; istituisce le autonomie locali, ma le annulla a piacimento attraverso i prefetti. Così al peggio delle “vecchie tirannidi” unisce i “pericoli delle nuove libertà”.

 

“Per gli amici le leggi s’interpretano e per i nemici si applicano”, diceva Giolitti, che al sud si garantiva la maggioranza usando senza scrupolo sia i prefetti sia i mazzieri. E qui arriviamo all’esame di coscienza: perché l’autore di questo saggio, dove lo storico è al solito indistinguibile dal polemista, si trova a riformulare il giudizio su colui che nel 1910 aveva chiamato “il ministro della mala vita” dopo una dittatura e due conflitti mondiali. A inizio secolo Salvemini lottava per il suffragio universale; ma la storia, sempre beffarda, ne assegnò la quasi completa realizzazione al suo nemico, che l’offrì al popolo come un pranzo “alle otto di mattina”, cioè senza prepararlo. Da allora però manipolare le elezioni divenne più difficile; e nel frattempo la corruzione giolittiana aveva reso il Parlamento a tal punto fiacco che nel 1915, malgrado fosse contrario alla guerra, non seppe resistere agli interventisti. Dunque il bilancio sullo statista piemontese è ancora tutto negativo? Non proprio.

 

Salvemini cita un merito passivo: Giolitti, che nel ’700 sarebbe stato un sostenitore del dispotismo illuminato, “ebbe il buon senso di non frastornare i movimenti spontanei della economia”. Ma resta il fatto che riducendo le elezioni a “ludi cartacei”, “fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo”: se nessuno sa che farsene del suffragio universale, il suffragio universale è pronto ad autoannullarsi. Il vecchio Salvemini rivendica insomma le sue critiche; ma ammette che da giovane avrebbe dovuto guardare “con maggior sospetto” a coloro che se ne compiacevano. Mentre infatti la sua era la battaglia di un democratico fiero dell’eredità positivista, la foga di tanti compagni veniva da un neo-idealismo che spesso, dopo la contestazione a “Giovanni”, li avrebbe portati dritti a “Cristo”.

 

E nel ’52 è di nuovo con la reazione “hegeliana” che Salvemini deve combattere. Come già il “Dottor Pangloss” Croce, Togliatti giustifica adesso i metodi giolittiani considerandoli adeguati all’epoca. E se Croce si contraddice mischiando il culto della forza con il liberalismo, Togliatti azzoppa il suo storicismo rimproverando a Giolitti di non aver fatto una radicale riforma agraria, cioè di non essere comunista come lui. Del resto, nel dopoguerra molti vedono nel Migliore un politico spregiudicato e accorto quanto l’uomo di Dronero.

 

Perché Salvemini e Giolitti sono anche figure simboliche destinate a cozzare in eterno: da una parte il virtuismo delle terze forze, dall’altra un pragmatismo che da giolittiano diventa via via togliattiano, andreottiano… e oggi contiano; da una parte gli azionisti che sottovalutano il compromesso, dall’altra i tattici che sottovalutano il rischio della deriva illiberale. Se Giolitti ricorda il solito, scettico generale Kutuzov, il volitivo Salvemini, che cerca di tradurre una fantasia astratta ma precisa in strumento pratico di progresso, fa pensare a un personaggio di Verne. “Ha una faccia sola. Vede tutte le cose linearmente” osservò Piero Gobetti descrivendo mirabilmente la sua limpidezza stilistica e morale. Per questo nel paese del double bind “è troppo poco complicato per essere capito”.

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