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Viva la Repubblica dei tamponi

Claudio Cerasa

Il dossier europeo sul record di tamponi nell’Ue dell’Italia, la competizione tra aziende della diagnostica che genera maggiore sicurezza, lo studio che incoraggia i genitori sui contagi in aula. Ragioni per non essere pessimisti sul ritorno a scuola

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Realismo sì. Allarmismo anche no, grazie. Ci sono almeno due buone ragioni per non essere troppo pessimisti rispetto al tema della riapertura delle scuole. La prima ragione ha a che fare con le notizie incoraggianti che arrivano da uno studio pubblicato l’altro ieri sul British Medical Journal, uno studio che costituisce la più ampia ricerca realizzata finora su questi temi, secondo cui per i bambini e per i ragazzi il rischio di un contagio grave di coronavirus a scuola è “raro”, il pericolo che i bambini infettati finiscano in ospedale è “minimo” e il rischio di conseguenze letali è “infinitamente raro” (sui casi presi in esame di contagio minorile da Covid-19 in Inghilterra, Scozia e Galles sono stati registrati non più di sei esiti fatali, tutti riguardanti bambini con gravi patologie pregresse associate) e per questo “i genitori – come suggerito dal professor Calum Semple, docente di Epidemiologia pediatrica all’Università di Liverpool – rispetto al ritorno in classe non devono avere troppi timori e devono essere fiduciosi del fatto che rimandare i figli a scuola non significa esporli a un pericolo diretto”. La seconda ragione per non essere troppo pessimisti ha a che fare con altri importanti e spesso non valorizzati progressi scientifici che si legano a una caratteristica interessante e incoraggiante osservata nelle ultime settimane anche in Italia: lo splendore della repubblica dei tamponi. Secondo una certa letteratura catastrofista, il sistema sanitario del nostro paese sarebbe poco preparato ad affrontare la fase 3, ovvero la convivenza con l’ondata di ritorno del coronavirus, a causa della scarsa efficienza con cui l’Italia tamponerebbe i possibili contagiati.

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Realismo sì. Allarmismo anche no, grazie. Ci sono almeno due buone ragioni per non essere troppo pessimisti rispetto al tema della riapertura delle scuole. La prima ragione ha a che fare con le notizie incoraggianti che arrivano da uno studio pubblicato l’altro ieri sul British Medical Journal, uno studio che costituisce la più ampia ricerca realizzata finora su questi temi, secondo cui per i bambini e per i ragazzi il rischio di un contagio grave di coronavirus a scuola è “raro”, il pericolo che i bambini infettati finiscano in ospedale è “minimo” e il rischio di conseguenze letali è “infinitamente raro” (sui casi presi in esame di contagio minorile da Covid-19 in Inghilterra, Scozia e Galles sono stati registrati non più di sei esiti fatali, tutti riguardanti bambini con gravi patologie pregresse associate) e per questo “i genitori – come suggerito dal professor Calum Semple, docente di Epidemiologia pediatrica all’Università di Liverpool – rispetto al ritorno in classe non devono avere troppi timori e devono essere fiduciosi del fatto che rimandare i figli a scuola non significa esporli a un pericolo diretto”. La seconda ragione per non essere troppo pessimisti ha a che fare con altri importanti e spesso non valorizzati progressi scientifici che si legano a una caratteristica interessante e incoraggiante osservata nelle ultime settimane anche in Italia: lo splendore della repubblica dei tamponi. Secondo una certa letteratura catastrofista, il sistema sanitario del nostro paese sarebbe poco preparato ad affrontare la fase 3, ovvero la convivenza con l’ondata di ritorno del coronavirus, a causa della scarsa efficienza con cui l’Italia tamponerebbe i possibili contagiati.

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L’European Centre for Disease Prevention and Control, l’agenzia indipendente dell’Unione europea dedicata alla prevenzione e al controllo delle malattie, giusto ieri ha pubblicato un report molto approfondito sul tema dei tamponi. E da questo report se ne deduce che, al contrario di ciò che si potrebbe credere, l’Italia, sui tamponi, non è un paese zimbello ma è un paese modello. E lo è per due ordini di motivi diversi: quantità dei tamponi e contesto del tampone. Sulla quantità i numeri parlano da soli: nella settimana tra il 17 e il 23 agosto, la Francia, che ha 67 milioni di abitanti, ha realizzato una media di 98 mila tamponi al giorno; la Germania, che ha 83 milioni di abitanti, una media di 82 mila tamponi al giorno; la Spagna, che ha 46 milioni di abitanti, una media di 68 mila tamponi al giorno; l’Italia, che ha 60 milioni di abitanti, dopo aver avuto la scorsa settimana una media di 68 mila tamponi al giorno, oggi è arrivata a circa 100 mila al giorno (93.529 il 26 agosto, 94 mila il 27, 97.065 il 28). Un numero non così alto come quello che si registra ormai stabilmente da tempo nel Regno Unito (dove gli abitanti sono 66 milioni e dove i tamponi sono 168 mila al giorno) ma abbastanza elevato da non rendere un’utopia la richiesta legittima formulata dalla Società italiana di pediatria: arrivare all’autunno con la capacità di poter avere entro la fine dell’anno test a tappeto per tutti, a scuola, con possibilità di avere risultati entro le 24 ore. “Il dato più significativo”, ci dice Giovanni Rezza, attuale direttore generale della prevenzione presso il ministero della Salute, “è che il numero molto alto di tamponi che l’Italia sta facendo avviene in un contesto diverso rispetto a quello di alcuni mesi fa: durante il picco della pandemia, i tamponi venivano fatti a chi aveva sintomi; oggi i tamponi vengono fatti anche a chi potrebbe avere i sintomi. Ed è per questo che il tasso di mortalità sta scendendo, non perché la malattia è cambiata ma perché è cambiato il modo in cui viene scoperta la malattia”. La capacità, non solo dell’Italia, di migliorare costantemente la sua capacità di fare tamponi non è figlia solo della progressiva esperienza del sistema sanitario ma è figlia anche di un rapporto esemplare e virtuoso che esiste tra il mondo del pubblico e il mondo del privato. Un rapporto virtuoso che si basa sulla efficienza e sulla valorizzazione di alcune parole solitamente tabù per l’Italia: concorrenza e competizione. In Italia il processo di creazione e acquisizione del tampone funziona così: le aziende private (o le strutture pubbliche) producono il così detto tampone non autodiagnostico, i tamponi vengono inseriti all’interno di una banca dati del ministero della Salute (i modeli presenti al momento sono 51, tutti privati), il ministero della Salute valuta l’idoneità del tampone sulla base del fascicolo tecnico prodotto dalla singola azienda (quasi un’autocertificazione), le Asl (tramite gara) e i laboratori privati (tramite acquisto diretto) pescano da quella banca dati per utilizzare il tampone che ritengono più efficace.

 

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E grazie alla competizione costante tra le varie strutture (private e pubbliche), i cittadini possono contare sul fatto che la concorrenza non solo genera innovazione (si acquista ciò che è più sicuro e che produce risultati più rapidi) ma genera anche costi progressivamente più bassi (per essere competitivo devi offrire anche prezzi più concorrenziali). E il fatto che su questo terreno, quello della concorrenza sui tamponi, non esistano cartelli lo si deduce anche da una notizia importante registrata ieri a Piazza Affari. Dove a causa della concorrenza (sfrenata?) che esiste su questo terreno, una delle società italiane più forti nell’immunodiagnostica e nella diagnostica molecolare (DiaSorin) ha perso il 4,7 per cento in Borsa dopo avere già perso l’8,6 per cento il giorno prima a causa delle notizie arrivate da alcune aziende concorrenti, che annunciando novità rilevanti sul tema dei tamponi hanno dirottato sulle loro società i capitali in cerca di futuro (la società anglo-francese Novacyt ha annunciato il lancio di un test respiratorio, capace di distinguere gli agenti responsabili della normale influenza invernale da quelli del Covid-19, l’americana Abbott ha ottenuto dalla Fd l’autorizzazione per una procedura accelerata per un nuovo test antigenico rapido per Covid-19 che si basa su un tampone nasale). Non è semplice essere ottimisti sul futuro, se si osserva quello che sta accadendo in queste ore in Francia, dove i contagi ieri sono quadruplicati rispetto a un mese fa. Ma rispetto al ritorno a scuola, almeno in Italia, ci sono forse più ragioni per essere ottimisti rispetto a quelle che ci porterebbero a essere pessimisti. Realismo sì. Catastrofismo no, grazie.

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