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Giggino e la sfinge

Di Maio fa l'equilibrista sulla via della Seta davanti al ministro degli Esteri cinese

Salvatore Merlo

Wang Yi viene a tastare la fedeltà traballante del capo della Farnesina. La questione di Hong Kong, il 5G e le doppiezze del leader grillino, atlantista intermittente e vecchio amico di Mister Ping

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Roma. Non appena la conversazione precipita sull’argomento Hong Kong, l’ex colonia britannica in cui la Cina ha cancellato con violenza ogni traccia di autonomia, ecco che Wang Yi, il ministro degli Esteri cinese, il volto chiuso come una noce, si toglie la giacca, forse per il caldo, ma con l’aria di chi si prepara a una sfida. E insomma questa specie di sfinge orientale, costituzionalmente inespressiva, capace di restare immobile per ore come un cadavere messo a sedere, all’improvviso ha un fremito: fissa l’occhio lontano mentre una ruga verticale si disegna sulla sua fronte (arriverà a dire che le leggi imposte a Hong Kong “servono a garantirne la libertà”).

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Roma. Non appena la conversazione precipita sull’argomento Hong Kong, l’ex colonia britannica in cui la Cina ha cancellato con violenza ogni traccia di autonomia, ecco che Wang Yi, il ministro degli Esteri cinese, il volto chiuso come una noce, si toglie la giacca, forse per il caldo, ma con l’aria di chi si prepara a una sfida. E insomma questa specie di sfinge orientale, costituzionalmente inespressiva, capace di restare immobile per ore come un cadavere messo a sedere, all’improvviso ha un fremito: fissa l’occhio lontano mentre una ruga verticale si disegna sulla sua fronte (arriverà a dire che le leggi imposte a Hong Kong “servono a garantirne la libertà”).

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Così, nella sala da pranzo della Farnesina, lungo la tavola ovale addobbata di rose bianche e gialle, tra i calici bordati d’oro e le boccettine di gel anti Covid messe lì a spezzare l’incanto pacchiano dei piatti d’argento, per un attimo cala il silenzio. Ma è una frazione di secondo. Un attimo, appunto. Perché Luigi Di Maio, che siede di fronte al gran dignitario cinese, non saprà maneggiare il congiuntivo (e ben poco conosce la grammatica italiana in genere) eppure conferma d’essere dotato d’una certa nativa arguzia, che poi non è altro che intuizione, decisione e velocità d’esecuzione: “Ah, bene!”, gli dice allora Luigi mentre si sfila anche lui la giacca. “Ora possiamo parlare con più franchezza, in maniche di camicia. Su Hong Kong la nostra posizione è chiara. Ed è quella dell’Unione europea. Autonomia e libertà vanno garantite”.

  

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E’ un incontro complicato questo di Di Maio. Difficile per lui e per la posizione internazionale dell’Italia. Wang Yi non è venuto ad assaggiare l’orata in crosta di patate che gli viene servita dalle cucine del ministero degli Esteri, e nemmeno i paccheri. Il ministro cinese vuole assaggiare Di Maio (e avrebbe voluto assaggiare Giuseppe Conte). Dopo le pressioni americane, la Cina vuole sapere su quanti amici può contare in Europa. 

 

A luglio, Robert O’Brien, consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente americano Donald Trump e falco anticinese, aveva incontrato a Parigi il consigliere diplomatico di Giuseppe Conte, Pietro Benassi, dopo aver parlato con i suoi omologhi francesi e tedeschi. E ancora prima, il segretario di stato Mike Pompeo aveva girato per le capitali europee, Roma compresa, per spingere gli alleati dell’Unione a schierarsi contro Pechino, accusata di “azioni provocatorie dal punto di vista militare” e di aver messo in atto “pratiche economiche predatorie, come cercare di costringere le nazioni a fare affari con Huawei”. In America, la generosità con cui l’Italia ha spalancato negli ultimi anni le porte alla Cina è vista nel migliore dei casi come ingenuità, e nel peggiore come complicità. E la pressione statunitense si è fatta ormai fin troppo avvertibile.

 

Così ieri il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha iniziato il suo “contro-tour” europeo, che lo porterà in Francia e poi anche in Germania, proprio con l’intenzione di sondare, capire, tastare, verificare chi sono gli amici e chi i nemici, a cominciare da Roma, appunto, l’unico grande paese europeo ad aver firmato con Pechino il famoso accordo sulla via della Seta. L’accordo delle arance esportate in Cina via aereo, per chi se lo ricorda (notizia: da ieri il patto si è allargato anche alla fondamentale esportazione di kiwi).

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E così è proprio in questa difficile posizione, in questo equilibrio precario, con mezzo sorriso rivolto all’America che pretende la cacciata dei cinesi e mezzo sorriso rivolto pure alla Cina che preme per il suo 5G, che Luigi Di Maio ha accolto a pranzo questo importante dirigente del Partito comunista, mentre Giuseppe Conte se ne restava in Puglia, in vacanza, saggiamente distante, immobile come un paracarro. Ma Di Maio, abituato com’è alla paranoia del M5s, ai giochi di furbizia con il muto Casaleggio, capace com’è stato di gareggiare in capriole con Matteo Salvini ai tempi del governo gialloverde e ora addirittura in grado di essere contemporaneamente sia il primo avversario di Conte sia il primo sostenitore dell’alleanza con il Pd, s’è definitivamente trasformato in un professore di equilibrismo tra gli squilibrati, in un mago del surplace: dire, non dire, affermare e contraddirsi, avvolgere tutto in una densa nube di fumo. E allora s’è tolto la camicia, ha quasi strappato un sorriso alla sfinge cinese mentre pure si consegnava a una rituale difesa dei diritti di Hong Kong, poi ha dichiarato la propria fede atlantista ma ha pure confermato l’amicizia nei confronti di Pechino, e infine a pranzo s’è offerto come “ponte diplomatico” tra oriente e occidente, niente meno, al punto da far prendere contatti ai cinesi con il ministro degli Esteri canadese che ieri si trovava a Roma pure lui. Chissà cos’ha capito il signor Wang Yi di tutto questo. Ambiguità, furbizia, contorsionismo. L’ultima volta che lo ha incontrato, Gianni Letta non a caso gli ha detto: “Luigi, sei il nuovo Andreotti”. Poi, certo, Luigi e il cinese si sono chiusi in una stanza, da soli, per trenta minuti. E lì è nebbia fitta. Altro che Andreotti.

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