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“Renzi, guida tu i moderati”

Goffredo Bettini

Per sopravvivere, a questa maggioranza serve una terza gamba liberale. E Matteo ha il talento per federarla e portarla al 10 per cento. Altro che fare il picconatore

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Siamo ad un tornante decisivo della politica italiana. Il varo del governo Conte due ha letteralmente salvato la Repubblica. Basta dire che se avesse prevalso la destra autoritaria di Salvini-Meloni, l’Italia sarebbe alla deriva. Per il Covid e per la mancanza delle risorse europee che non sarebbe mai riuscita ad ottenere. Ma ciò che è stato fatto nell’emergenza non basta più. È solo la premessa di un’azione più profonda. La questione, senza fronzoli è: saremo in grado ora di fare un passo in avanti? Di portare il paese sui binari giusti e riscattarlo dalla crisi? Forse. Dobbiamo provare. E ancora provare. E dobbiamo utilizzare ogni spazio politico disponibile.

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Siamo ad un tornante decisivo della politica italiana. Il varo del governo Conte due ha letteralmente salvato la Repubblica. Basta dire che se avesse prevalso la destra autoritaria di Salvini-Meloni, l’Italia sarebbe alla deriva. Per il Covid e per la mancanza delle risorse europee che non sarebbe mai riuscita ad ottenere. Ma ciò che è stato fatto nell’emergenza non basta più. È solo la premessa di un’azione più profonda. La questione, senza fronzoli è: saremo in grado ora di fare un passo in avanti? Di portare il paese sui binari giusti e riscattarlo dalla crisi? Forse. Dobbiamo provare. E ancora provare. E dobbiamo utilizzare ogni spazio politico disponibile.

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Intanto ci sono prove immediate da superare. Lo ha ricordato Zingaretti: l’immigrazione che scappa dal terrore delle crisi africane e che impone una politica coordinata dell’Italia con l’Europa. Il Covid che si sta riaffacciando, nonostante gli stolti negazionisti (ha fatto bene Conte a limitare le occasioni di contagio). La libertà è sempre un rapporto reciproco. La propria finisce sulla soglia di quella dell’altro, che ha il diritto di vivere in una società rispettosa, protetta e responsabile. L’apertura delle scuole, che va preparata al meglio e meglio. La legge elettorale: un patto che va rispettato, impiantandola almeno in un ramo del Parlamento prima del voto referendario. Infine, le elezioni regionali che avranno ripercussioni generali. Nessun si illuda del contrario.

 

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La prova più significativa, però, sarà l’utilizzazione del “Recovery fund”. Essa riguarda il destino delle nuove generazioni. Le risorse disponibili non vanno consumate in modo disordinato e senza un filo di coerenza strategica. Lo ha detto con autorevolezza Mario Draghi. L’Europa ha indicato le priorità: l’innovazione, la digitalizzazione, la scuola, la formazione, l’università; e poi l’ammodernamento delle grandi infrastrutture, il risanamento del dissesto idrogeologico, uno sviluppo verde. Il governo ha lavorato anche in agosto per preparare progetti ben definiti e competitivi. Ma come si misura veramente la bontà di questi progetti? E’ necessario rispondere ad un quesito fondamentale: va riacceso il vecchio motore dell’economia, che negli ultimi anni ha portato alla stagnazione e all’aumento delle disuguaglianze? Oppure va colta l’occasione, forse irripetibile, di imprimere un nuovo indirizzo allo sviluppo italiano?

Va approvata subito la legge elettorale. E le elezioni regionali avranno ripercussioni generali. Nessuno si illuda del contrario

 

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Giorgio Gori ha invocato, giustamente, un sostegno alle forze produttive. Ma detta così non spiega tutto. Questo obiettivo va tutt’uno con la lotta alla rendita, che è la vera metastasi che ha corroso e distorto l’Italia. Il capitalismo italiano è stato in gran parte assistito. Si è intrecciato con la speculazione finanziaria. Si è delocalizzato, internazionalizzato. E’ sfuggito dalle sue responsabilità nazionali. Ha investito poco sull’innovazione e la ricerca rispetto agli altri paesi europei. I suoi profitti li ha riparati all’estero. La rendita sono gli enormi patrimoni inermi e improduttivi. Il risparmio privato, impaurito e dunque non circolante. E per quanto riguarda il lavoro e il non lavoro, la rendita è un sostegno pubblico poco attivo, poco formativo, mal indirizzato; che alla fine genera zone di assistenza apatica.

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Il mondo produttivo è attraversato da queste contraddizioni. Ecco perché occorre un nuovo rigore selettivo, una sincera impronta riformista, che non si spenga di fronte ai “santuari” dei poteri di sempre; ma che protegga le imprese sane: chi resta in Italia, chi garantisce la solidità dei territori, chi vive della propria attività, spesso in un rapporto quasi familiare con i suoi dipendenti.

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Questo tessuto produttivo (anche dalla sinistra) è stato erroneamente, e per troppo tempo, considerato come il terreno da bonificare dagli evasori. Occorre una svolta. In questo senso paiono di grande valore le proposte di Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle entrate, per rendere la tassazione delle partite Iva più aderente allo sviluppo dei ricavi delle imprese. Gori dice “il piccolo non è affatto bello”. Lo so, occorre rafforzare la dimensione delle aziende italiane, ma quel tessuto imprenditoriale diffuso, è stato comunque prezioso per garantire occupazione, creatività, la tenuta delle esportazioni, la rete delle infrastrutture e dei servizi in tante regioni italiane. Esso non sarà in grado di coordinarsi e di crescere in grandezza, se non verrà in campo una vera politica industriale integrata dei grandi soggetti imprenditoriali pubblici e privati in un rapporto virtuoso e di reciproco scambio con quel ceto medio produttivo garanzia fondamentale della nostra tenuta democratica.

 

La lotta alla rendita è tutt’uno anche con il nostro obiettivo di accorciare le distanze tra i troppo ricchi e i troppo poveri. Perché se parliamo di forze produttive, dobbiamo sapere che il mondo del lavoro è stato emarginato, anche sul piano simbolico, poco rappresentato, ritenuto via via sempre più irrilevante, compresso nei redditi mentre aumentavano i profitti. Appellarsi genericamente al “riformismo” o ai “produttori” non dice se occorre restare nei vecchi recinti e innovare per efficientare ciò che resta del passato, oppure se occorre cambiare e tentare un salto.

 

Per fare il salto, c’è bisogno di realismo da parte di tutti. Il Pd è stato obbligato al rapporto con il Movimento 5 stelle. Non c’era altra strada per poter recuperare un filo di speranza per la Repubblica. Renzi che nel campo moderato e liberale è senza dubbio il leader più intelligente e svelto, lo ha capito in poche ore. E oggi rivendica con orgoglio quella scelta. Non considero affatto il M5s il migliore degli alleati possibili. Ma dire no in assoluto alla alleanza con quel movimento è fare “l’anima bella” che ha sempre ragione perché non accetta le repliche della realtà. Chi persegue “il meglio” assoluto, si sa, prepara inesorabilmente il peggio. La politica è sempre “pratica politica”. Altrimenti diventa speculazione, ricerca filosofica, dottrina. Adatta per i filosofi, indispensabili, ma che non hanno il compito di dirigere un grande paese moderno.

 

 

Al Pd ora serve rimarcare i propri valori. Con un congresso? Prevalga ciò che è nel cuore della maggioranza dei nostri militanti e dirigenti

A coloro cui l’attuale governo non piace, rispondo: c’è un’altra concreta via praticabile? Non da preparare attraverso lunghi percorsi, che non ci sono concessi, ma da realizzare oggi: nel mentre arrivano le risorse europee che sarebbe un delitto consegnare all’attuale destra italiana. Questa ispirazione vuol dire, come affermano alcuni critici, perdere l’anima? Esattamente il contrario. La vocazione maggioritaria non è la “dittatura” di un partito; soprattutto quando tale partito non è nelle condizioni di poterla neppure ambire. Piuttosto è il carattere aperto, trasversale, nazionale delle nostre idee. Essa come si potrebbe sviluppare in una sorta di isolamento autarchico? Sarebbe congelata in un atteggiamento solitario e presuntuoso. Al contrario, può esprimersi solo nella battaglia politica e ideale, nel dialogo, nell’apertura, nel fuoco dei processi a cui dobbiamo dare l’impronta della nostra presenza e dei nostri obbiettivi. Come si fa a non comprendere che se ora noi mandassimo tutto all’aria, per ragioni di “principio”, sarebbe un regalo alla destra peggiore? È strano. C’è una sorta di eterogenesi dei fini. Chi dice di voler combattere a tutti i costi il populismo, apre la strada, con questo modo di ragionare, proprio al populismo nella sua versione più pericolosa.

 

Il populismo è un fenomeno articolato. In tutte le sue versioni rifiuta la mediazione e il leader assume su di sé la volontà generale del popolo. Esso si ferma, tuttavia, sulla soglia del rispetto della libertà di espressione e dello svolgimento delle elezioni politiche, tranne qualche sporadica eccezione. Ma in Italia ci troviamo di fronte ad un populismo straordinario. Infatti quello di Salvini-Meloni cavalca una ambiguità micidiale; allude costantemente al rovesciamento della pratica costituzionale: “i pieni poteri”, la divisione del Paese, l’odio razziale, il disprezzo per l’Europa. Il M5s, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, non ha in sé questo pericolo autoritario, piuttosto pratica un ribellismo demagogico, con risvolti anche sociali.

 

Claudia Mancina, con l’acutezza che la contraddistingue, sostiene che il realismo politico è prendere atto anche che si può perdere. Sì: quando non è in gioco la natura democratica del Paese. A quel punto una questione prevale su tutte: fermare l’avventura e dare una risposta unitaria per non far morire la speranza di un avvenire democratico e di una società migliore. Questo va fatto anche in condizioni quasi impossibili: esattamente la situazione in cui ci troviamo ora ad agire.

 

Si dice: meglio che il Pd abbandoni il gioco politico e l’alleanza con il M5s, per dare alla sua identità autonomia programmatica e ideale. Ma non era proprio questa mancanza di prospettiva politica, l’oggetto della critica che i “miglioristi” e i “riformisti” del Pci rivolsero al compianto Berlinguer? Eppure il segretario del Pci non aveva di fronte una sorta di pericoloso neofascismo. Piuttosto doveva competere con un governo a guida socialista e dunque gli era concesso il tempo e lo spazio politico per far crescere un’alternativa democratica ampia e per dare una nuova missione al suo partito (allora al 30 per cento) disorientato dalla esperienza dell’unità nazionale.

 

Discettare ideologicamente sul populismo non consente di cogliere una verità: anche la sinistra lo ha avuto sempre dentro di sé. Renzi stravinse alle europee perché indovinò il tema della rottamazione ed elargì 80 euro ai lavoratori italiani. Paolo Bufalini, un grande leader troppo dimenticato, mi ripeteva quando ero segretario del Pci di Roma: la lotta è su due fronti. Contro gli avversari e contro il plebeismo interno. Ma quel plebeismo, diceva, non si sconfigge considerandolo avulso dalla democrazia e dalla società italiana. Almeno quello che non tracima nell’autoritarismo e nella violenza. La sinistra, piuttosto, ne doveva scorgere le ragioni profonde e provare a trasformarlo in un popolo consapevole e combattivo.

 

A coloro a cui non piace questo governo, chiedo: c’è un’altra via praticabile, che non apra la strada alla destra populista e neofascista?

I Cinque stelle sono rimasti sempre uguali? Ma come si fa a non vedere che in questo anno sono cambiate tante cose? Certo, rimangono distanze grandi: la giustizia, un certo ideologismo circa lo sviluppo economico, un’idea declamatoria e rozza del rinnovamento delle istituzioni, una vena di strumentalità nell’alleanza con il Pd. Ma grazie al rapporto con noi, sono radicalmente mutati il loro rapporto con l’Europa, la valutazione della scienza, l’atteggiamento sulle manovre economiche e finanziare del ministro Gualtieri con il loro impianto di crescita e di giustizia. Franceschini mi ha più volte ripetuto: stanno cominciando a capire quanto sia complesso governare e quanto alla propaganda si debba sostituire il ragionamento, l’ascolto e il compromesso.

 

Oggi, tuttavia, si deve aprire una nuova fase. Fino ad ora Conte nell’emergenza ha fatto bene, ha incarnato l’alleanza. E il paese gliene è grato. Ma questo equilibrio non regge per il domani. Se si deve governare insieme (Renzi ha detto che occorre arrivare almeno fino alla elezione del presidente della Repubblica) va pretesa una maggiore unità e una soggettività politica della maggioranza che sostiene il governo. Nulla è scontato. Lo ha detto in modo fulminante Andrea Orlando. Non c’è stata affatto, ancora, una stabilizzazione del rapporto tra noi e il movimento di Grillo. Solo coloro che vogliono il maggioritario sembrano pensare ad una saldatura già avvenuta. Ma noi sappiamo che ogni giorno dobbiamo rivendicare il nostro ruolo e affermare le nostre idee. In un processo convulso, con avanzate e ritirare.

 

Basti pensare all’esito imperdonabile circa gli accordi regionali. Alla incomprensibile volontà dei nostri alleati di dissociarsi da una battaglia elettorale decisiva anche per il governo, i cui esiti possono cambiare radicalmente il clima politico della Repubblica. Già prima dei risultati, infatti, i tamburi di guerra della destra populista e neofascista, rullano per destabilizzare l’Italia. Siamo dunque in campo aperto, forti nelle nostre ragioni, ma per nulla certi degli esiti finali.

 

Lo abbiamo ripetuto mille volte. L’unità e il governo per il Pd vanno ricercati e difesi fino a che servono al paese. Non vivono a prescindere, ma dipendono dai risultati positivi che si riescono ad ottenere. Ho detto già che, secondo me, nell’alleanza servono tre gambe: la sinistra, il M5s e un’area moderata, riformista e liberale che conta nell’opinione pubblica il 10 per cento, ma che attualmente è spezzettata, afona e non rappresentata. Tale area è un bene se si dovesse unificare. Spetterà ad essa scegliere le alleanze. Dico solo che io la ritengo indispensabile, nello schieramento democratico. Darebbe maggiore ariosità, libertà, occasioni di confronto sulle idee; permettendoci di superare il rapporto solitario tra noi e i Cinque stelle, che alla lunga potrebbe diventare povero e persino stucchevole.

 

Renzi ha accettato di stare pienamente dentro al processo politico italiano. Egli, se volesse, avrebbe tutto il talento di progettare questo nuovo spazio liberale e moderato, come il costruttore di questa possibilità, individuando i leader più adatti a guidarla. Sarebbe una svolta rispetto al suo ruolo di picconatore minoritario. Ritornerebbe ad essere, nonostante le sue sconfitte, una grande personalità della democrazia italiana. Sarebbe anche, una funzione più limpida e utile, rispetto alla tentazione di orchestrare manovre politiche o di condizionare il Pd, con il quale da poco ha deciso di rompere con durezza.

 

Conte sa bene che questo equilibrio non regge senza dare unità alla maggioranza. Imperdonabile il mancato accordo sulle regionali

Infine il Pd. Credo che nei momenti più spericolati della manovra politica, sia necessario marcare con più forza i propri valori, la propria storia e i propri fini ultimi. Per non perdersi. Ho detto una volta che mi piacerebbe un partito strabico. Immerso nella realtà e oltre la realtà. Pragmatico e profetico. Affidabile e sognatore. Per fare questo serve un congresso? Una discussione programmatica e rifondativa? Prevalga ciò che è nel cuore della maggioranza dei nostri militanti e dirigenti. Dei nostri sindaci e amministratori che sono stati la trincea che in questi mesi ci ha permesso di sopravvivere.

 

Il Covid ha tagliato le classi dirigenti del mondo in due: chi ha pensato esclusivamente al business sottovalutando gli effetti della pandemia e chi ha messo in equilibrio l’esigenza della ripresa economica con la salute dei cittadini. Mantenendo l’obbiettivo fondamentale di salvare le vite degli italiani. Mi è stato detto che salvare le vite non è il fine di un governo e non è riformista. Invece penso che rispettare le persone, dare loro la possibilità di esprimersi e vivere liberamente, considerare l’esistenza sacra, implementare una politica che abbia il fine di temperare i rapporti di forza e la pura logica del profitto, non solo siano materia politica ma il senso più autentico di una politica riformatrice, concreta e profondamente umana. Questo per me è l’orizzonte del Pd. Che non a caso è un partito laico e socialista. Ed è un partito cristiano. Occorre farlo attraversando i tormenti del tempo. Guai ritrarsi e guai non “fare”.

 

Ezra Pound, un poeta che amo enormemente sfigurato dai fascisti di oggi, nell’ottantunesimo canto del suo poema, invita: “Strappa da te la vanità… Ma avere fatto in luogo di non avere fatto, questa non è vanità… Qui l’errore è ciò che non si è fatto nella diffidenza che fece esitare”. E’ il cuore di una politica che ha il coraggio e l’ambizione di cambiare il mondo.

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