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L’assurda guerra al Jobs Act

Più che il taglio dei parlamentari, il vero sfregio alla Costituzione è tagliare la libertà degli imprenditori

Claudio Cerasa

La restaurazione di Landini con il lasciapassare dei sovranisti costerà cara

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E se il vero sfregio alla Costituzione non fosse la riduzione del numero dei parlamentari ma fosse la riduzione di libertà concessa agli imprenditori italiani? Nella più totale e nociva indifferenza della classe dirigente, il Parlamento italiano, usando questa volta l’emergenza Covid come un pretesto per portare avanti un organico progetto di restaurazione, si sta rendendo complice di un delitto politico importante che nel giro di pochi mesi potrebbe eliminare dalla scena pubblica del paese una delle più importanti riforme portate a compimento dalla politica negli ultimi anni: il Jobs Act. Può apparire bizzarro che in una fase storica come quella che stiamo vivendo oggi, in cui il governo dovrebbe occuparsi dalla mattina alla sera di come offrire alle aziende strumenti per poter creare nuovi posti di lavoro e in cui i sindacati dovrebbero occuparsi di come adattare il lavoro alla nuova stagione post pandemica, vi sia una parte non minoritaria della politica che vuole smantellare una legge che ha contribuito a modernizzare il mercato del lavoro, favorendo l’assunzione in pochi anni di circa un milione di dipendenti a tempo indeterminato. Eppure più passa il tempo e più appare evidente come la sottomissione alla cultura vetero sindacale sui temi del lavoro è destinata a creare nel giro di pochi mesi una tempesta perfetta che metterà il governo di fronte a una scelta più o meno di questo tipo: vedersi costretti a ritirare la norma liberticida che vieta alle imprese di poter scegliere chi eventualmente licenziare (norma che non esiste in nessun paese al mondo, tranne che in Turchia e in Cina) solo a condizione di fare quello che sognano da anni i sindacati, ovverosia smantellare il Jobs Act, eliminando il divieto di reintegro per i licenziamenti economici, reintroducendo l’articolo 18 ed estendendolo anche alle imprese sotto i 15 dipendenti – imprese che in questi mesi, avendo beneficiato della stessa tipologia di cassa integrazione prevista per le grandi imprese, sono state di fatto equiparate alle aziende con più di 15 dipendenti.

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E se il vero sfregio alla Costituzione non fosse la riduzione del numero dei parlamentari ma fosse la riduzione di libertà concessa agli imprenditori italiani? Nella più totale e nociva indifferenza della classe dirigente, il Parlamento italiano, usando questa volta l’emergenza Covid come un pretesto per portare avanti un organico progetto di restaurazione, si sta rendendo complice di un delitto politico importante che nel giro di pochi mesi potrebbe eliminare dalla scena pubblica del paese una delle più importanti riforme portate a compimento dalla politica negli ultimi anni: il Jobs Act. Può apparire bizzarro che in una fase storica come quella che stiamo vivendo oggi, in cui il governo dovrebbe occuparsi dalla mattina alla sera di come offrire alle aziende strumenti per poter creare nuovi posti di lavoro e in cui i sindacati dovrebbero occuparsi di come adattare il lavoro alla nuova stagione post pandemica, vi sia una parte non minoritaria della politica che vuole smantellare una legge che ha contribuito a modernizzare il mercato del lavoro, favorendo l’assunzione in pochi anni di circa un milione di dipendenti a tempo indeterminato. Eppure più passa il tempo e più appare evidente come la sottomissione alla cultura vetero sindacale sui temi del lavoro è destinata a creare nel giro di pochi mesi una tempesta perfetta che metterà il governo di fronte a una scelta più o meno di questo tipo: vedersi costretti a ritirare la norma liberticida che vieta alle imprese di poter scegliere chi eventualmente licenziare (norma che non esiste in nessun paese al mondo, tranne che in Turchia e in Cina) solo a condizione di fare quello che sognano da anni i sindacati, ovverosia smantellare il Jobs Act, eliminando il divieto di reintegro per i licenziamenti economici, reintroducendo l’articolo 18 ed estendendolo anche alle imprese sotto i 15 dipendenti – imprese che in questi mesi, avendo beneficiato della stessa tipologia di cassa integrazione prevista per le grandi imprese, sono state di fatto equiparate alle aziende con più di 15 dipendenti.

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La ragione che fa di questa storia una sorta di tempesta perfetta è legata al fatto che la sottomissione alla cultura sindacale non fa presa solo all’interno del governo ma anche all’interno dell’opposizione, che piuttosto che denunciare questa deriva anti industriale e forse persino anti costituzionale (articolo 41 della Costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera”) osserva la dinamica in silenzio non perché non se ne accorga ma perché non ha nulla da obiettare. Chiunque abbia osservato senza schermi ideologici le dinamiche del lavoro degli ultimi anni non può non ammettere che la flessibilità contenuta nel Jobs Act (tre anni di decontribuzione per i nuovi assunti con maggiore semplicità nei primi tre anni di contratto di licenziare) ha contribuito ad aumentare i posti di lavoro senza aver creato la precarietà da molti annunciata e forse da qualcuno persino auspicata (si disse che tre anni dopo l’avvio del Jobs Act, l’Italia avrebbe dovuto fare fronte a una mareggiata di licenziamenti, invece a 39 mesi dall’assunzione con il Jobs Act a essere stato licenziato è stato il 21,3 per cento degli assunti, contro il 22,6 per cento degli assunti l’anno prima con il contratto tradizionale). Lo schema del Jobs Act, decontribuzione a parte, ha funzionato anche perché lo stato per una volta ha mostrato di fidarsi degli imprenditori. Ma quello schema oggi rischia di essere ribaltato, e non solo per la difficoltà del governo a rispondere al sindacato.

 

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A proposito del sindacato: non si capisce come faccia il segretario della Cgil, Maurizio Landini, a chiedere contemporaneamente nuove regole per lo smart working e di tornare alle vecchie regole sul mercato del lavoro. Poi però c’è il centrodestra. Perché il leader più popolare del centrodestra, Matteo Salvini, tra il 2016 e il 2017, piuttosto che battersi contro l’ingiustizia di aver escluso dal Jobs Act il pubblico impiego, in nome dell’anti renzismo sostenne con il M5s il tentativo della Cgil di Susanna Camusso di abolire il Jobs Act attraverso una rivoluzione referendaria. La Consulta dichiarò illegittimo quel referendum – salvo poi l’anno successivo smontare un piccolo pezzo di Jobs Act, quello relativo alla possibilità da parte delle imprese di stabilire preventivamente per legge il costo massimo dell’indennizzo per i licenziamenti disciplinari economici, prerogativa che la Consulta ha restituito alla magistratura – e oggi il colpo di grazia alla riforma del lavoro potrebbe arrivare proprio da una politica miope che potrebbe sfruttare la stagione pandemica (il divieto di licenziamenti è stato protratto per diciotto settimane il che significa che è stato protratto in modo del tutto ingiustificato anche oltre il periodo definito dal Parlamento per lo stato d’emergenza) per rimuovere una delle più importanti riforme portate a termine dall’Italia negli ultimi anni. E se è lecito non aspettarsi nessuna difesa del Jobs Act da parte del M5s e della Lega (chissà cosa penseranno gli imprenditori italiani nell’avere un fronte ostile alla libertà di impresa sia al governo sia all’opposizione) stupisce invece che non ci sia nessuna voce all’interno del Pd disposta a battersi per difendere una delle poche riforme che negli ultimi anni hanno avuto la forza di cambiare in meglio il paese.

 

E in una stagione in cui la pandemia ha accelerato una grande trasformazione del lavoro rendendo necessario un nuovo processo di riorganizzazione aziendale (avere un mercato del lavoro più elastico e più produttivo, caro Landini, non è un modo per alimentare il precariato ma è un modo per avere un paese capace di adattarsi ai vari cicli dell’economia) c’è da sperare che l’Italia, per combattere contro i sindacati conservatori, la magistratura ideologica e la politica revisionista, riceva un qualche aiuto dall’Europa per difendere la libertà d’impresa e promuovere le trasformazioni del lavoro. E a tutte le anime belle preoccupate per il futuro dell’Italia oggi come non mai varrebbe la pena chiedere se il vero sfregio alla Costituzione non sia, più che la riduzione del numero dei parlamentari, la progressiva riduzione di libertà concessa agli imprenditori italiani.

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