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Così a Villa Certosa il Cav. benedice la ri-svolta a destra di Forza Italia

Domenico Di Sanzo

Il vertice nel clima di fine impero. Niente proporzionale e piena fedeltà a Salvini. Il non processo alla Gelmini e la consapevolezza che sarà difficile fermare l'esodo (anche verso Calenda)

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Roma. Dopo Villa Certosa svoltare a destra. Finita la cattività provenzale, ci voleva il ritorno del Papa laico di Forza Italia per mettere a tacere le indiscrezioni, fugare i dubbi e silenziare un dissenso che scorre ormai da mesi, nel partito, e ormai erompe in superficie dalle feritoie carsiche di Palazzo Madama e Montecitorio. Tutti in Sardegna, dunque. Sono volati verso la residenza estiva del Cav. il vicepresidente del partito ed europarlamentare Antonio Tajani, le capogruppo Maria Stella Gelmini e Anna Maria Bernini, lo stratega Gianni Letta, l’avvocato-senatore Niccolò Ghedini, l’onnipresente Licia Ronzulli. Consiglieri nuovi e un po’ più stagionati, come Sestino Giacomoni e Adriano Galliani. Insomma, la corte al gran completo, in un quadretto un poco decadente, riproposizione virata seppia della gloria che fu. E in un rituale immutabile ci si è ritrovati ancora una volta intorno al tavolo del capo per ricomporre le fratture, sanare le incomprensioni e provare a tracciare una strada. Una direzione univoca. Con tanto di photo opportunity, saluti col gomito e tre cagnolini modello Dudù a suggellare la pace. O almeno la tregua armata in vista delle regionali di settembre.

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Roma. Dopo Villa Certosa svoltare a destra. Finita la cattività provenzale, ci voleva il ritorno del Papa laico di Forza Italia per mettere a tacere le indiscrezioni, fugare i dubbi e silenziare un dissenso che scorre ormai da mesi, nel partito, e ormai erompe in superficie dalle feritoie carsiche di Palazzo Madama e Montecitorio. Tutti in Sardegna, dunque. Sono volati verso la residenza estiva del Cav. il vicepresidente del partito ed europarlamentare Antonio Tajani, le capogruppo Maria Stella Gelmini e Anna Maria Bernini, lo stratega Gianni Letta, l’avvocato-senatore Niccolò Ghedini, l’onnipresente Licia Ronzulli. Consiglieri nuovi e un po’ più stagionati, come Sestino Giacomoni e Adriano Galliani. Insomma, la corte al gran completo, in un quadretto un poco decadente, riproposizione virata seppia della gloria che fu. E in un rituale immutabile ci si è ritrovati ancora una volta intorno al tavolo del capo per ricomporre le fratture, sanare le incomprensioni e provare a tracciare una strada. Una direzione univoca. Con tanto di photo opportunity, saluti col gomito e tre cagnolini modello Dudù a suggellare la pace. O almeno la tregua armata in vista delle regionali di settembre.

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Sì perché le fazioni sono ben distinte. E lo erano soprattutto durante le prime battute del confronto. Ghedini e Ronzulli da un lato a perorare la causa filo-salviniana e “la fedeltà al centrodestra”. Che è una formula politica inventata dallo stesso Berlusconi, si è sentito ripetere più volte a Porto Cervo. Tajani nel mezzo, insieme alla Bernini, e dall’altro lato Gelmini e soprattutto Letta, il teorico delle larghe intese e del dialogo con Conte, il più irresolubilmente contrario alla subalternità al trucismo. Il tutto, però, nella acquisita consapevolezza del precipitare degli eventi, coi gruppi parlamentari in subbuglio e un esercito quasi ammutinato sui territori. E così perfino la Gelmini, l’imputata della vigilia per via di quel suo ammiccare a Carlo Calenda, impantanata nei veleni della corte, ha saputo difendersi con una certa agilità dalle accuse di tradimento e di abiura, dissipando le malignità di chi la voleva già dimissionaria, col fido Giacomoni a sostituirla nel ruolo di capogruppo. Segno insomma che forse, perfino tra gli irriducibili, va maturando la consapevolezza che il guardarsi attorno, il cercare altre vie e altre soluzioni, è in fondo un peccato tutt’altro che mortale, per i parlamentari di un partito che perde sempre più consistenza. Perfino nei confronti di Enrico Costa, l’ex ministro azzurro passato in Azione, perfino nei confronti di chi quella stessa mossa la sta meditando, non si sono sentiti i toni liquidatori e offensivi che piovvero sulla testa di chi, solo qualche mese fa, guardava con interesse a Matteo Renzi.

 

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E a breve le truppe si aspettano un segnale inequivocabile della svolta a destra. Dovrebbe essere un’altra dichiarazione senza appello di Berlusconi a tema legge elettorale. Un messaggio in cui si ribadisce la fedeltà allo schema maggioritario concordato con gli alleati della Lega e di Fratelli d’Italia. Contestualmente uno stop a certe tentazioni proporzionaliste, arrivate anche dai big. Renato Brunetta l’ha detto al Foglio, a chiare lettere: “Per salvare Forza Italia dal salvinismo serve un proporzionale purissimo”. Roba forte che non dovrà più trovare spazio sulle pagine dei giornali o nei lanci d’agenzia. Almeno fino al 20 settembre, giorno del voto in sette regioni. Tra gli azzurri tutti sanno che prima di allora non potrà accadere nulla di significativo e che “non aveva senso rompere prima delle regionali”. Dopo chissà. Intanto si marcia tenendo la destra. Saldamente in coalizione con Salvini e la Meloni. Così è deciso.

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