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Cari riformisti, non rassegnatevi alla vocazione minoritaria

Andrea Romano, deputato del Pd

L’alleanza con il M5s non può portare a una convergenza identitaria e culturale. Un appello e un libro da studiare

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Sarà poi vero che “il futuro è della sinistra liberale”, come sostiene fin dal titolo questo bel libro curato da Claudia Mancina? Dipende, viene da rispondere. Perché prima di ragionare del futuro sarebbe utile capire cos’è accaduto alla sinistra liberale (italiana) nel recente passato e soprattutto nel nostro presente, vista la tesi di molti secondo cui il riformismo si troverebbe oggi in piena ritirata strategica di fronte alla duplice avanzata di populismo sovranista e sinistra statalista. Su cosa sia la cosiddetta “sinistra liberale”, gli autori del volume (il primo della nuova collana curata dalla Fondazione Per, nata nel 2018 su iniziativa di Libertà Eguale) non peccano di indeterminatezza: “Se la lotta per la giustizia sociale e l’eguaglianza è la cifra distintiva della sinistra – scrive Claudia Mancina dialogando con Michele Salvati – la sinistra liberale e riformista è quella che ha imparato che il mercato regolato non è nemico dell’eguaglianza; che l’eguaglianza oggi non è tanto una questione di risorse economiche quanto di formazione e di accesso agli strumenti culturali, tra cui in primo piano le tecnologie digitali. E ha imparato che non si può scambiare eguaglianza con libertà”. 

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Sarà poi vero che “il futuro è della sinistra liberale”, come sostiene fin dal titolo questo bel libro curato da Claudia Mancina? Dipende, viene da rispondere. Perché prima di ragionare del futuro sarebbe utile capire cos’è accaduto alla sinistra liberale (italiana) nel recente passato e soprattutto nel nostro presente, vista la tesi di molti secondo cui il riformismo si troverebbe oggi in piena ritirata strategica di fronte alla duplice avanzata di populismo sovranista e sinistra statalista. Su cosa sia la cosiddetta “sinistra liberale”, gli autori del volume (il primo della nuova collana curata dalla Fondazione Per, nata nel 2018 su iniziativa di Libertà Eguale) non peccano di indeterminatezza: “Se la lotta per la giustizia sociale e l’eguaglianza è la cifra distintiva della sinistra – scrive Claudia Mancina dialogando con Michele Salvati – la sinistra liberale e riformista è quella che ha imparato che il mercato regolato non è nemico dell’eguaglianza; che l’eguaglianza oggi non è tanto una questione di risorse economiche quanto di formazione e di accesso agli strumenti culturali, tra cui in primo piano le tecnologie digitali. E ha imparato che non si può scambiare eguaglianza con libertà”. 

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Ma se così stanno le cose – ed effettivamente questa definizione coglie nel segno, separando con precisione la sinistra liberale dal liberismo e facendo giustizia della confusione che si pratica strumentalmente sul tema – vale la pena interrogarsi sulle ragioni del pessimismo che pervade queste pagine, nonostante il titolo del volume. Se Vittorino Ferla scrive della “maledizione italiana: l’incapacità di fare le riforme”, lo stesso Michele Salvati (in un saggio lucidissimo) lamenta la difficoltà a permeare di temi liberali l’agenda della sinistra perché “non si vincono le elezioni con un programma che sarà pur realistico, ma che non può promettere agli elettori importanti benefici immediati” ed Enrico Morando indulge alla retorica delle “occasioni perdute” che tanto peso ha avuto nella rappresentazione orgogliosamente minoritaria che la sinistra liberale italiana ha sempre avuto di se stessa. Perché al fondo – ed è un punto dirimente – uno dei limiti tradizionali della sinistra liberale italiana è stato quello di concepirsi come un eroico ma piccolo vascello condannato a muoversi sempre in acque ostili, forse per emulazione della vocazione minoritaria a cui si sono condannati i liberali italiani di ogni colore. E’ accaduto in diverse stagioni della storia recente del nostro riformismo, fin dall’esperienza dei miglioristi del Pci. Ed è accaduto anche quando la sinistra italiana è stata in realtà guidata da un’agenda e da leader di forte orientamento liberale, come nel caso dei governi Renzi e Gentiloni. Ecco, l’assenza di un’analisi politica di quella stagione proprio da un libro dedicato alla sinistra liberale colpisce e fa riflettere. Perché non manca solo da questo bel volume, ma anche da una discussione pubblica nella quale hanno finora prevalso letture personalistiche e vittimistiche: quelle secondo cui le cose fatte e progettate da quei governi avrebbero rappresentato invenzioni solitarie di questo o quel leader senza essere mai completamente digerite da una sinistra italiana che sarebbe rimasta strutturalmente aliena ai temi liberali. Se si capisce come tali letture siano alla base di partiti personali come Italia Viva, o della sua furbesca imitazione calendiana, è meno comprensibile come la stagione che ha visto la sinistra di governo varare molte riforme coraggiose (e tentarne di altre altrettanto audaci) non venga rivendicata da un autorevole gruppo di liberali di sinistra come questo. O meglio, si comprende solo alla luce della difficoltà di riconoscere come un dato di fatto la piena legittimazione dei temi riformisti nell’agenda della sinistra italiana. E’ vero, ovviamente, che su questa mancata rivendicazione pesa anche il percorso personale di Matteo Renzi: il primo che ha paradossalmente “privatizzato” i risultati della sua esperienza di governo nel doppio tentativo di separarli dal capitale politico di tutto il Pd e di farne un uso esclusivamente personale. Ma gli auspici dell’ultimo Renzi non possono essere confusi con quanto è effettivamente accaduto in quegli anni, quando quelle riforme furono promosse dalla comunità politica del Pd e assorbite dentro una cultura politica dove i temi liberali e riformisti già convivevano con i temi più classicamente socialdemocratici. Come accade, peraltro, in tutti i grandi partiti della sinistra europea: nessuno dei quali esibisce una “monocultura identitaria”, ma dove si svolge sempre una dinamica conflittuale tra agenda liberale e agenda socialdemocratica. Questo ci conduce dal passato al presente, e alla dimensione più spinosa nella quale si muovono oggi i temi della sinistra liberale.


Per condizionare e fare egemonia, e affermare i temi della sinistra liberale nella stagione storica che stiamo vivendo, è indispensabile non considerare le stagioni passate come delle parentesi da dimenticare. La logica della stampella non può avere caratteristiche strutturali. La risposta che serve all’agenda Bettini 


 

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E’ chiaro che l’alleanza di governo tra il Pd e il Movimento 5 Stelle pone una sfida nuova e difficile alla forza e all’efficacia di quei temi. Anche perché oggi una parte del Pd riformula l’agenda classicamente socialdemocratica sotto un nuovo cappello politico: non tanto quello di un’alleanza tattica con il Movimento 5 Stelle – che ha una sua solidissima ragion d’essere nella contrapposizione all’alleanza sovranista tra Lega e Fratelli d’Italia e nel dovere di evitare che all’Italia vengano nuovamente inflitti i danni materiali e morali che sono venuti dalla Lega al governo – quanto piuttosto nell’auspicio di una fusione politica tra l’agenda Pd e quella grillina sulla base di quella che viene immaginata come una comune matrice identitaria e culturale tra i due partiti. Non è una posizione banale né semplicistica, quella di quei dirigenti del Pd che argomentano la prospettiva di una fusione politica con il Movimento 5 Stelle. Si regge ad esempio, sull’idea antica (qualcuno ricorda il trattino?) secondo cui il Pd dovrebbe allearsi “a destra” con chi darà “all’elettorato riformista e moderato, oggi disperso e senza guida e che vale unito più del 10 per cento” (come ha scritto proprio ieri Goffredo Bettini in una riflessione seria e da prendere sul serio). Una doppia prospettiva, dunque, che si regge da un lato sulla prospettiva di una convergenza identitaria e culturale tra Pd e M5s e dall’altra sulla prospettiva di un’alleanza con un soggetto esterno al Pd a cui delegare la rappresentanza riformista. Ma proprio l’alternativa a questa doppia prospettiva è lo spazio per far valere oggi la forza dei temi della sinistra liberale, insieme all’opportunità di rilanciare in forma aggiornata quella “vocazione maggioritaria” secondo cui il Pd rappresenta senza alcuna delega anche l’elettorato e i temi riformisti. 

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Gli stessi temi, liberali e riformisti, che tra l’altro troviamo in molti dei contributi di questo volume: da un uso efficace e non inerziale del debito pubblico di cui scrive Nannicini, all’utilizzo virtuoso della leva economica dello Stato di cui scrive Salvati, a un europeismo pragmatico che non si consegni alle inutili fumisterie eurofederalistiche e che lavori per superare la contrapposizione tra globalismo e sovranismo di cui scrive Claudia Mancina. Temi che differenziano l’agenda della sinistra liberale di oggi da quella degli anni Novanta, com’è inevitabile. E temi che rappresentano l’ossatura della partita che il Pd può giocare con il Movimento 5 Stelle secondo uno schema di gioco alternativo a quello doppio della “fusione fredda”, come l’ha definita Enrico Borghi, e della delega all’esterno della rappresentanza riformista: una partita per il condizionamento dei Cinque Stelle (che si sono già mostrati estremamente mobili, per usare un eufemismo, rispetto alle loro convinzioni anche solo di un anno fa) e per quella che un tempo avremmo definito “la pratica dell’egemonia” da coltivare nel campo alternativo al sovranismo. Ma per condizionare e fare egemonia, e dunque per affermare i temi della sinistra liberale anche nella nuova stagione storica che stiamo vivendo, è indispensabile che l’agenda riformista italiana non si condanni a quella vocazione minoritaria da cui sembra essere tradizionalmente afflitta. Scegliendo invece di spendere il peso delle proprie idee - e anche quello delle riforme che ha concretamente ispirato - dentro quei grandi partiti popolari senza i quali anche le migliori idee sono condannate a restare auspici personali di profeti disarmati.

 

Andrea Romano è deputato del Pd

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