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Di Maio in pretura. L'antilingua del ministro corretta da un professore

Michele Cortelazzo

Michele Cortelazzo, docente di Linguistica Italiana a Padova, esamina la lettera che il ministro degli Esteri ha spedito al Fatto. Voglia di fare il brillante e manierismo

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"Gentile direttore la seguente perchè...". È questo l'incipit della lettera che Luigi Di Maio ha spedito al Fatto per spiegare la ragione dei suoi numerosi incontri (Mario Draghi, Gianni Letta, Gianni Mion). Un frullato di burocratese. Urge un professore! Il Foglio ha chiesto a Michele Cortelazzo di metterla sotto la sua lente.

 

 

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Per anni ho tenuto un corso di "Tecniche di scrittura" per gli studenti di Comunicazione. Da questa esperienza ho tratto qualche insegnamento: il primo è che, ad andare a cercarli, gli svarioni si trovano sempre ma si tratta di singoli inciampi che denotano disattenzione (grave comunque), più che incapacità profonda di usare la lingua. A meno che non si tratti sempre dello stesso studente, che scivola ripetutamente sul terreno per lui infido della lingua italiana.

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Il secondo insegnamento è che, più di questi errori, indicano un debole dominio della lingua gli sbalzi di registro, con scritti che ammiccano, consapevolmente o meno, a un livello colloquiale dell'italiano, ma al tempo stesso cercano di sollevare il livello dello scritto rifugiandosi negli stereotipi del burocratese o di uno stile da avvocatino di pretura del secolo scorso, quando esistevano ancora le preture.

Questa esperienza mi è venuta in mente leggendo la lettera scritta nei giorni scorsi al direttore del "Fatto quotidiano" dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Lo stile è indefinibile, perché oscilla da un desiderio di fare il brillante, che si aggrappa anche a stereotipi mal contestualizzati, a un tentativo di alzare il tono con espressioni di maniera, di stampo burocratico o cerimonioso.

 

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Vorrebbero essere brillanti alcune sequenze con cui vengono conclusi, o introdotti, diversi capoversi, come la battuta finale, con una colloquiale dislocazione a sinistra ("qualche risultato, me lo conceda, a casa lo abbiamo portato"), o altre clausole come "l'encefalogramma, mi permetta, non è stato piatto", o "insomma, possiamo dire che non ci si annoia mai".

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Ma queste battute vengono compensate dagli intercalari da conversazione ingessata, come "mi permetta", "me lo conceda" (che richiamano irresistibilmente il "mi consenta" di Berlusconi), ma anche i "colgo l'occasione" e l'ineffabile "infine, e concludo", che è espressione tipica dell'oralità pubblica, quando l'oratore, conscio di averla tirata troppo per le lunghe, vuole tranquillizzare gli ascoltatori e garantire (spesso mentendo) di essere in procinto di terminare il suo discorso.

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Ma il segnale più visibile del versante burocratico della scrittura di Di Maio, è l'incipit, che suona così: "Gentile Direttore, la seguente perché da qualche giorno ho notato che sta facendo notizia la mia agenda di appuntamenti". È un modo che credevo possibile solo nella comunicazione burocratica di terz'ordine, quella di chi scrive (o, spero, scriveva), "la presente per rappresentarle che".


Il testo a me fa l'impressione di un ibrido, scritto con scarsa attenzione e scarsa perizia (non mancano le improprietà lessicali, le concordanze dei tempi discutibili, soprattutto per quel che riguarda le frasi all'infinito, gli errori di interpunzione, le ripetizioni). Esattamente come le prove di esame dei miei studenti più deboli e meno preparati. Però, non è il compito di uno studente del primo anno, ma la lettera, pubblica, del ministro degli Esteri. Mi sarei aspettato proprio una migliore tessitura testuale e una maggiore accuratezza.

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