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Dove va Berlusconi

Stefano Cingolani

Altro che ritiro, il Cav. è tornato. Le battaglie vecchie e nuove di Mediaset. Lo scontro con Vivendi. E poi la politica, croce e delizia

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Le notizie sul suo ritiro, anche se un buen retiro tra la villa di Arcore e quella sulla via Appia Antica che aveva affidato a Franco Zeffirelli, sono quanto meno esagerate. Chissà se Mark Twain avrebbe apprezzato Silvio Berlusconi, è chiaro tuttavia che il Cavaliere ha rinverdito il famoso detto dello scrittore americano. Altro che pensione, Berlusconi è tornato e lotta insieme alla famiglia, agli amici, ai seguaci che si sono ridotti di numero, ma stanno recuperando la grinta e l’identità che nelle ultime elezioni politiche avevano depositato nelle tasche di Matteo Salvini contro il parere, ancora una volta sapiente, di Gianni Letta. D’accordo non è più cavaliere del lavoro, ma quante cose possono cambiare dopo le ombre calate sulla sentenza che gli ha tolto il titolo al quale teneva. Era il 2013 quando la Corte di Cassazione lo condannava a quattro anni di reclusione per frode fiscale. Ora spunta un nastro registrato nel quale il magistrato Amedeo Franco, relatore della causa, parla di una “grave ingiustizia”, di una “vicenda guidata dall’alto”, di una decisione presa da un “plotone di esecuzione” perché non era quella la sezione destinata a celebrare il processo e il suo presidente Antonio Esposito nutriva un pregiudizio verso l’imputato. E’ manna dal cielo e Niccolò Ghedini parte lancia in resta inviando il materiale alla Corte europea per i diritti dell’uomo presso la quale pende da sei anni il ricorso di Berlusconi. Non sappiamo come andrà a finire, nel frattempo il giudice Franco è morto, il giudice Esposito ha lasciato la toga e collabora al Fatto quotidiano. Sono i tempi della giustizia come recita un detto popolare; anche questa in ogni caso è una tappa del lungo percorso che riposta Berlusconi al centro della scena.

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Le notizie sul suo ritiro, anche se un buen retiro tra la villa di Arcore e quella sulla via Appia Antica che aveva affidato a Franco Zeffirelli, sono quanto meno esagerate. Chissà se Mark Twain avrebbe apprezzato Silvio Berlusconi, è chiaro tuttavia che il Cavaliere ha rinverdito il famoso detto dello scrittore americano. Altro che pensione, Berlusconi è tornato e lotta insieme alla famiglia, agli amici, ai seguaci che si sono ridotti di numero, ma stanno recuperando la grinta e l’identità che nelle ultime elezioni politiche avevano depositato nelle tasche di Matteo Salvini contro il parere, ancora una volta sapiente, di Gianni Letta. D’accordo non è più cavaliere del lavoro, ma quante cose possono cambiare dopo le ombre calate sulla sentenza che gli ha tolto il titolo al quale teneva. Era il 2013 quando la Corte di Cassazione lo condannava a quattro anni di reclusione per frode fiscale. Ora spunta un nastro registrato nel quale il magistrato Amedeo Franco, relatore della causa, parla di una “grave ingiustizia”, di una “vicenda guidata dall’alto”, di una decisione presa da un “plotone di esecuzione” perché non era quella la sezione destinata a celebrare il processo e il suo presidente Antonio Esposito nutriva un pregiudizio verso l’imputato. E’ manna dal cielo e Niccolò Ghedini parte lancia in resta inviando il materiale alla Corte europea per i diritti dell’uomo presso la quale pende da sei anni il ricorso di Berlusconi. Non sappiamo come andrà a finire, nel frattempo il giudice Franco è morto, il giudice Esposito ha lasciato la toga e collabora al Fatto quotidiano. Sono i tempi della giustizia come recita un detto popolare; anche questa in ogni caso è una tappa del lungo percorso che riposta Berlusconi al centro della scena.

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E’ l’ultimo tra i “condottieri” degli anni Ottanta, l’unico della sua generazione a non aver venduto l’azienda che ha fondato. La grande tregua giuridico-finanziaria e la grande tregua politica: un’ampia maggioranza per affrontare la crisi

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La vendita di palazzo Grazioli, è stato scritto, chiude un’epoca, quella della Seconda Repubblica scivolata nei vagoni del bunga bunga, e consegna alla storia il periodo peggiore, il biennio di fuoco dal 2009 fino alla caduta nel novembre 2011, quando mestamente Berlusconi esce sconfitto proprio da quel palazzo un tempo popolato di capi politici, clientes e ragazze in tubino nero abbigliate comme il faut per le “cene eleganti”, e da allora infestato di fantasmi. Adesso si apre una nuova fase ricca di soddisfazioni, nonostante la pandemia, e di sfide. Berlusconi è rimasto l’ultimo tra i “condottieri” degli anni Ottanta, l’unico nella sua generazione a non aver venduto l’azienda che ha fondato. Anzi, sta provando a rilanciarla addirittura su scala europea. L’arcinemico Carlo De Benedetti che allora sfidava il Gotha del capitalismo europeo ha ridotto la sua Cir a poca cosa e ha ceduto persino Repubblica, ultimo vero gioiello al quale sembrava più attaccato che alla stessa famiglia. Ci riprova con un nuovo giornale, chiamato Domani, una scommessa sul futuro, per ora su scala ridotta. Leonardo Del Vecchio ha piazzato la sua Luxottica a Parigi; non è chiaro se sarà al sicuro nelle mani della Essilor, e forse non ne è certo nemmeno lui; intanto prova a scalare Mediobanca anche se la creatura di Enrico Cuccia non tiene più in mano le sorti del capitalismo italiano, quella dei Pesenti, dei Pirelli, Lucchini, Merloni, Orlando, Marzotto, Ligresti, per non parlare della Montedison nella quale tanto denaro privato e pubblico è stato bruciato. Problemi di eredità, intrighi familiari e spirito imprenditoriale, quella sindrome dei Buddenbrooks che ha colpito le grandi famiglie, l’apertura dei mercati, la globalizzazione, la scarsità di capitali, insomma chi più ne ha più ne metta, i fattori del declino sono davvero molti.

  

Berlusconi ha risolto la successione con un equilibrio tra le sue due famiglie, che si rispecchia anche nel consiglio di amministrazione della Fininvest. L’ultima assemblea ha confermato Marina Berlusconi (presidente), Danilo Pellegrino (amministratore delegato), Barbara Berlusconi, Luigi Berlusconi, Pier Silvio Berlusconi e Salvatore Sciascia, consiglieri. Assieme a loro, ha nominato Adriano Galliani e Niccolò Ghedini. L’azionariato di Fininvest vede le holding personali di Silvio Berlusconi detenere il 63 per cento circa del capitale, i primi due figli (Marina e Pier Silvio) con oltre il 7 per cento ciascuno, mentre la società comune di Barbara, Eleonora e Luigi ha poco più del 21 per cento. Ai soci andrà l’intero utile 2019 della capogruppo pari a un ammontare complessivo di 84,2 milioni di euro. La Fininvest ha registrato l’anno scorso un utile consolidato di 220,3 milioni di euro, in crescita rispetto ai 203 milioni di euro di un anno prima. Tutto a gonfie vele? Non proprio: i ricavi si sono ridotti del 12,3 per cento e ammontano a 3.886 miliardi di euro, colpa della flessione della pubblicità Mediaset. Gli investimenti strategici effettuati, in particolare da Mediaset in Prosiebensat, hanno determinato un peggioramento della posizione finanziaria netta: l’indebitamento a fine 2019 è di 1,3 miliardi da 878,8 milioni di fine 2018. E qui veniamo alla scommessa sul futuro.

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Un anno fa nasce ad Amsterdam una holding chiamata Mfe, Media for Europe, che fonde la società italiana e quella spagnola e controlla il 20 per cento della tedesca ProsiebenSat. L’obiettivo è creare il nocciolo di una televisione davvero europea. Un progetto che Silvio Berlusconi aveva coltivato fin dagli anni Ottanta, quando entrò in Spagna grazie ai buoni uffici di Felipe Gonzalez, primo ministro socialista, e cercò di stabilire un presidio in Francia con il sostegno dell’allora presidente, anche lui socialista, François Mitterrand che aveva deciso di privatizzare parte della televisione di stato. Come lo stesso Berlusconi ha più volte raccontato, l’amicizia con Bettino Craxi lo ha aiutato a far breccia tra i socialisti. Ma se a Madrid le cose sono filate lisce, a Parigi s’è messo di mezzo l’allora sindaco Jacques Chirac, gaullista, che poi diventerà presidente delle Repubblica. Con una ordinanza, la mairie, il municipio, proibisce a La Cinq (così si chiamava la rete di Berlusconi alla cui guida era stato nominato Carlo Freccero) di collocare un’antenna sulla torre Eiffel. Un duro colpo che limitò moltissimo la capacità di trasmissione mentre cominciava una martellante campagna contro “la télé Coca Cola”. L’avventura durò sei anni e si concluse nel 1992 mentre in Italia scoppiava Tangentopoli.

  

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Adesso ci riprovano i figli Marina e Piersilvio, ancora una volta gli avversari parlano francese con l’aggravante che oggi sono nemici interni guidati da Vincent Bolloré il quale, attraverso Vivendi, detiene il 28,8 per cento di Mediaset. Una volta fuse le attività italiane e spagnole in Media for Europe e dopo che saranno state assegnate le azioni a voto speciale A, Fininvest deterrà il 47,88 per cento dei diritti di voto della nuova holding, Vivendi il 10,42 per cento, mentre Simon Fiduciaria (dove il gruppo francese ha parcheggiato la sua quota principale per non incappare nella legge Gasparri visto che è anche il maggior azionista di Tim) ne avrà il 20,81 per cento. Il calcolo fatto da Mediaset si basa sui proposti rapporti di cambio e assume che gli azionisti mantengano inalterata la propria partecipazione nel capitale sociale, che attualmente vede Fininvest al 44,18 per cento (con il 45,89 per cento dei diritti di voto) e Vivendi al 28,80 per cento, con diritti di voto che le spettano direttamente per il 9,98 per cento, mentre Simon Fiduciaria può esercitarne il 19,94 per cento. L’operazione Mfe viene vissuta da Bolloré come un tentativo di aggirarlo mettendolo con le spalle al muro. Di qui le denunce e i ricorsi giudiziari. La vicenda è degna dei migliori azzeccagarbugli, infatti spopolano nei tribunali di Amsterdam e di Milano che hanno dato ragione a Mediaset, come in quello di Madrid la cui decisione è attesa forse la prossima settimana. La fiduciaria Simon, sotto la pressione delle autorità italiane, ha immobilizzato il più importante pacchetto di Vivendi che potrebbe essere scongelato solo se cambiassero gli equilibri in Tim dove i francesi, un tempo dominanti, sono ridotti a socio finanziario che deve contrattare ogni mossa con il fondo Elliott e la Cassa depositi e prestiti. Una doppia gabbia dalla quale Vivendi non riesce a uscire, tuttavia lo scenario è più che mai in movimento. In ProsiebenSat è entrato (con il 12 per cento) il miliardario della Repubblica ceca Daniel Křetínský, che a Parigi possiede il settimanale Marianne e una quota rilevante del Monde. Il sospetto francese che possa agire di concerto con Mediaset non è stato fugato nemmeno dalle smentite ufficiali. Si è rafforzato nel capitale del gruppo tedesco anche il fondo KKR il quale spunta nella vicenda parallela che riguarda Tim e la sorte della rete fissa. Ma facciamo un passo indietro.

  

Bolloré entra in Italia all’inizio del nuovo millennio attraverso Mediobanca diventando il principale azionista privato alla guida di una cordata transalpina. Berlusconi è al governo e il finanziere bretone sembra un suo alleato, anche grazie ai buoni uffici di Tarak Ben Ammar che lo rappresenta in Italia. L’ascesa nella finanza italiana lo porta tra il 2010 e il 2013 alla vice presidenza delle Assicurazioni Generali delle quali era stato presidente il suo mentore Antoine Bernheim. Nel 2014 corona la scalata a Vivendi, maggior gruppo francese dei media, ma nel frattempo si trova invischiato anche nelle alterne e imbrogliate vicende di Telecom Italia, perché è Vivendi a rilevare la quota degli spagnoli di Telefonica dopo la loro uscita. Bolloré sale al 24.9 per cento e diventa primo azionista della compagnia. Il vero obiettivo non sono i telefoni, ma la tv. Confessa che il suo progetto è “una Netflix europea”, così nel 2016 matura la scelta di acquistare la pay tv Mediaset Premium, tuttavia in pochi mesi un’operazione amichevole diventa un conflitto aperto che si trascina in annose querelle giudiziarie. Vivendi non vuole più il cento per cento, ma solo il 20 per cento di Premium e salta anche lo scambio di azioni tra i due gruppi. Secondo Berlusconi quella che doveva essere un’alleanza diventa un cavallo di Troia. A Vivendi non basta certo mettere insieme Canal Plus e Premium per sfidare i colossi americani; di qui il suo interesse per Mediaset, con un eventuale piano B: lasciare la tv in chiaro a Fininvest per appropriarsi dei diritti televisivi, dei canali a pagamento, delle produzioni di contenuti. La campagna d’Italia si blocca e passano tre anni in trincea, finché non spunta l’operazione Mfe.

   


La Fininvest ha registrato l’anno scorso un utile consolidato di 220,3 milioni di euro, in crescita rispetto all’anno precedente. In attesa che il duello conradiano tra Bolloré e Berlusconi trovi un qualche esito, Vivendi si rafforza in patria


  

In attesa che il duello conradiano tra Bolloré e Berlusconi trovi un qualche esito, Vivendi si rafforza in patria, vende il 10 per cento della casa di produzione musicale Universal a un consorzio guidato dal gigante cinese Tencent, sulla base di una valutazione particolarmente redditizia per Vivendi: ben 30 miliardi di euro per il cento per cento di Universal Music Group che nel 2014 era valutata tra 7 e 8 miliardi di euro. Ed entra nel gruppo Lagardère che possiede l’editoriale Hachette. Il 21 aprile Vivendi compra il 10,6 per cento, il 7 maggio sale al 13,36 per cento, il 25 maggio è al 16,48 per cento. Un investimento da 300 milioni di euro. Classica scalata di Bolloré come è successo in Lazard, Mediobanca, Vivendi, Mediaset, Tim. Ufficialmente è un intervento amichevole per sostenere Arnaud Lagardère contro il fondo Amber Capital che ha il 18 per cento del gruppo fortemente indebitato. In Hachette entra anche Bernard Arnault con il 7 per cento, e c’è il sospetto di un’azione concertata con Vivendi. Sistemati i conti in Francia, Bolloré può dedicarsi alle partite italiane: la prima in Telecom Italia, dove per il momento regge l’accordo fra Vivendi, azionista con il 24 per cento del capitale, e il fondo americano Elliott che ha il 9,7 per cento; la seconda, più complicata, in Mediaset. Secondo indiscrezioni riportate dal quotidiano finanziario francese Les Echos, Bolloré sarebbe pronto a vendere almeno il 20 per cento del Biscione, sopportando una perdita di 200 milioni, ormai prevista da tempo.

  

Se i lettori sono riusciti a seguirci in queste intricate battaglie giuridico-finanziarie a cavallo delle Alpi, possiamo introdurre quella che molti considerano la partita decisiva, per la quale è sceso in campo anche Beppe Grillo. Nel suo blog ha prefigurato un aumento della presa su Tim da parte della Cassa depositi e prestiti più qualche azionista privato italiano, in modo da liquidare Vivendi e sbarrare la strada all’espansionismo di fondi internazionali: KKR disponibile a intervenire in una società nella quale Tim collochi la sua rete insieme a quella di Open Fiber; Macquerie pronto a rilevare la quota dell’Enel in Open Fiber ed Elliott azionista di Tim che attende il momento buono per incassare e intanto si libera del Milan vendendolo ad Arnault. Chi paga? E quanto costa? Ci vuole un bel pacco di euro per “liquidare” tutti questi soggetti, soprattutto Vivendi. A questo punto voci dal sen fuggite suggeriscono di riaprire un dossier che non era stato mai distrutto, ma soltanto riposto in un cassetto: il matrimonio tra Tim e Mediaset, realizzando quella convergenza tra contenitore e contenuti, araba fenice dell’era digitale. Se ne era parlato nel 2006, poi nel 2014, nel 2016 e ancora nel 2018. Ogni volta la politica si era messa di traverso, però i tempi cambiano. Un Berlusconi europeista che può votare sì al Mes, ammiratore di Angela Merkel un tempo chiamata (secondo la leggenda) “culona inchiavabile”, garante del Partito popolare, desideroso di raddrizzare lo squilibrio con Salvini, pronto a entrare a governo “con una nuova maggioranza” (parole sue), insomma il Berlusconi che potrebbe farsi chiamare di nuovo Cavaliere, diventa tutta un’altra cosa. Sul versante degli affari potrebbe significare un accordo con Vivendi, sistemando nel reciproco interesse le partecipazioni che finora hanno prodotto perdite e grattacapi. Come? Trovando un compromesso. Vivendi può restare come azionista di minoranza, in Tim, in Mediaset e in Mfe, aspettando il decollo della tv europea che valorizzerebbe anche la sua quota. La grande tregua giuridico-finanziaria farebbe da pendant alla grande tregua politica: un’ampia maggioranza per affrontare la crisi, una coalizione all’italiana nelle forme che la fantasia tricolore consentiranno. Troppe cose sono incagliate, troppi quattrini congelati, troppi destini politici in bilico. Scenari da solleone, sogni di una notte di mezza estate. O no?

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