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Conte, Zingaretti e il settembre fatale

Salvatore Merlo

I destini incrociati e le debolezze parallele del leader Pd e del premier. Storie, alleanze e difficoltà

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Roma. Simul stabunt simul cadent. E ancora adesso è la necessità e persino la debolezza a tenerli insieme, proprio come all’inizio di questa fragile alleanza fattasi governo, quando il segretario del Pd nemmeno voleva che il presidente del Consiglio scelto a suo tempo da Salvini e Di Maio rimanesse lì dov’era, cioè a Palazzo Chigi, Bis-Conte, dunque il primo nella storia ad aver guidato senza soluzione di continuità un governo di destra e poi uno di sinistra. E infatti quasi un anno fa Nicola Zingaretti dovette accettare Giuseppe Conte, per debolezza, perché circondato dalle correnti del Pd che quel governo volevano farlo, così come Conte – che non aveva ancora nessuna autonomia – fu riconfermato anche lui proprio perché considerato debole, insomma neutro e liquido come un sapone. Così, poiché forse esiste qualcosa di immanente nelle alchimie della politica, ecco che oggi a distanza di un anno la storia si ripete, ed ecco che gli eventi li ripropongono l’uno a fianco all’altro, loro malgrado, costretti a sorreggersi in una somma di debolezze che probabilmente non fa una forza. Dunque Zingaretti si aggrappa a Conte, gli chiede di rivolgersi ai Cinque stelle affinché si chiudano le alleanze tra M5s e Pd alle regionali perché vede l’impalpabile rete del destino calare sulla sua segreteria, perché teme una sconfitta elettorale a settembre che possa fare decollare le ambizioni dei suoi competitori interni, Stefano Bonaccini e Andrea Orlando. Allo stesso modo, Conte si aggrappa a Zingaretti per simmetrica difficoltà, vuole infatti sopire l’insofferenza che gli manifesta una parte del Pd, spera di sopravvivere e di cavarsela su quel voto del Mes che è già rinviato all’autunno, vede insomma nel segretario l’amico necessario, e insieme a lui concorre a caricare di speranze e di significati il prossimo settembre. Quasi l’autunno del destino: il Mes e le regionali, appunto, il governo e il partito, il futuro dell’uno e dell’altro. E allora simul stabunt simul cadent, Zingaretti e Conte, come accadeva alle vecchie grandi coppie del centrosinistra nella Seconda Repubblica. Ecco riemergere dal fondo remoto della politica un’espressione ciclica del giornalismo parlamentare e del Transatlantico, utilizzata con fissa pendolarità a proposito di D’Alema e di Prodi, Rutelli e Veltroni.

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Roma. Simul stabunt simul cadent. E ancora adesso è la necessità e persino la debolezza a tenerli insieme, proprio come all’inizio di questa fragile alleanza fattasi governo, quando il segretario del Pd nemmeno voleva che il presidente del Consiglio scelto a suo tempo da Salvini e Di Maio rimanesse lì dov’era, cioè a Palazzo Chigi, Bis-Conte, dunque il primo nella storia ad aver guidato senza soluzione di continuità un governo di destra e poi uno di sinistra. E infatti quasi un anno fa Nicola Zingaretti dovette accettare Giuseppe Conte, per debolezza, perché circondato dalle correnti del Pd che quel governo volevano farlo, così come Conte – che non aveva ancora nessuna autonomia – fu riconfermato anche lui proprio perché considerato debole, insomma neutro e liquido come un sapone. Così, poiché forse esiste qualcosa di immanente nelle alchimie della politica, ecco che oggi a distanza di un anno la storia si ripete, ed ecco che gli eventi li ripropongono l’uno a fianco all’altro, loro malgrado, costretti a sorreggersi in una somma di debolezze che probabilmente non fa una forza. Dunque Zingaretti si aggrappa a Conte, gli chiede di rivolgersi ai Cinque stelle affinché si chiudano le alleanze tra M5s e Pd alle regionali perché vede l’impalpabile rete del destino calare sulla sua segreteria, perché teme una sconfitta elettorale a settembre che possa fare decollare le ambizioni dei suoi competitori interni, Stefano Bonaccini e Andrea Orlando. Allo stesso modo, Conte si aggrappa a Zingaretti per simmetrica difficoltà, vuole infatti sopire l’insofferenza che gli manifesta una parte del Pd, spera di sopravvivere e di cavarsela su quel voto del Mes che è già rinviato all’autunno, vede insomma nel segretario l’amico necessario, e insieme a lui concorre a caricare di speranze e di significati il prossimo settembre. Quasi l’autunno del destino: il Mes e le regionali, appunto, il governo e il partito, il futuro dell’uno e dell’altro. E allora simul stabunt simul cadent, Zingaretti e Conte, come accadeva alle vecchie grandi coppie del centrosinistra nella Seconda Repubblica. Ecco riemergere dal fondo remoto della politica un’espressione ciclica del giornalismo parlamentare e del Transatlantico, utilizzata con fissa pendolarità a proposito di D’Alema e di Prodi, Rutelli e Veltroni.

   

Ma il sospetto che si possa passare rapidamente dalla fase dello stabunt a quella del cadent è abbastanza corposo, anche se non è certo per questo, insomma non è per cercare un conforto spirituale (o scaramantico) che Conte ieri ha ricevuto i frati di Assisi a Palazzo Chigi. Il Parlamento è infatti una camera delle meraviglie, imprevedibile e crudele, al punto che non sono certo passate inosservate le mosse, le parole (e i silenzi) dei Cinque stelle che hanno fatto seguito all’appello di Conte. Il quale, raccogliendo l’invito di Zingaretti, aveva detto che la mancata alleanza tra Pd e M5s per le regionali “sarebbe una sconfitta per tutti e anche per me”. E infatti, malgrado il ricercatissimo appoggio di Beppe Grillo, l’appello del presidente del Consiglio è precipitato come una biglia su un cuscino: flop. Al punto che Vito Crimi, reggente del M5s, non precisamente un’autorità carismatica, giovedì sera aveva risposto così: “Le alleanze le faremo dove sarà possibile”. Non una salva di pernacchie, ma quasi. A riprova del fatto che la difficoltà di Zingaretti si specchia in quella di Conte, fino a spingere il segretario periclitante a chiedere l’aiuto di un premier che, malgrado i sondaggi gratificanti per l’ alto gradimento popolare, probabilmente non controlla quasi per niente quei gruppi parlamentari dei cinque stelle che invece rimangono, per lo più, saldamente nelle mani non certo di Crimi ma del silente Luigi Di Maio. Nelle mani cioè di quel giovane ministro degli Esteri che intanto tutti dicono stia aspettando il settembre fatale del Mes coltivando ambizioni che mal si conciliano con la sopravvivenza di Conte. Così, mentre tutt’intorno s’apparecchiano trappole e trabocchetti, mentre l’alleanza alle regionali non sembra chiudersi e l’estate lascia intravedere l’autunno del destino, mentre il centrodestra si prepara all’assedio con una manifestazione di piazza oggi a Roma, ecco che Zingaretti e Conte, avvinghiati, l’uno appoggiato all’altro, dicono che “bisogna correre”. Simul.

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