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Rai, Agcom e governo. Sorpresa. C’è un asse Franceschini-Renzi

Salvatore Merlo e Valerio Valentini

Imminenti le dimissioni dell’amministratore delegato della tv pubblica. La nuova nomina ora spetta al Pd. E il M5s abbozza. La denuncia legale di Orfeo

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Roma. L’anello più debole è anche il più forte, perché spezza la catena. E così Fabrizio Salini, amministratore delegato della Rai, nominato dall’allora governo Lega-M5s a luglio 2018 e fortemente sponsorizzato dai grillini, pensa di dimettersi. L’annuncio potrebbe essere imminente, “questione di poche settimane”. Lascia una Rai che chiuderà il bilancio senza fare utili malgrado il copioso canone. Sarebbe bizzarro se non aspettasse nemmeno la fine di giugno, e cioè il momento in cui l’azienda dovrà presentare palinsesti e bilancio, ma alcuni politici sostengono che possa dimettersi persino prima. E infatti da qualche giorno è cominciato il pissi pissi di potere, le grandi manovre, il rimescolio a piene mani della politica che da sempre tutto tiene insieme: Rai e deleghe di governo, rimpasto e nuovi equilibri nei rapporti tra Pd e M5s.

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Roma. L’anello più debole è anche il più forte, perché spezza la catena. E così Fabrizio Salini, amministratore delegato della Rai, nominato dall’allora governo Lega-M5s a luglio 2018 e fortemente sponsorizzato dai grillini, pensa di dimettersi. L’annuncio potrebbe essere imminente, “questione di poche settimane”. Lascia una Rai che chiuderà il bilancio senza fare utili malgrado il copioso canone. Sarebbe bizzarro se non aspettasse nemmeno la fine di giugno, e cioè il momento in cui l’azienda dovrà presentare palinsesti e bilancio, ma alcuni politici sostengono che possa dimettersi persino prima. E infatti da qualche giorno è cominciato il pissi pissi di potere, le grandi manovre, il rimescolio a piene mani della politica che da sempre tutto tiene insieme: Rai e deleghe di governo, rimpasto e nuovi equilibri nei rapporti tra Pd e M5s.

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E non è un caso che, nelle chiacchiere d’anticamera a Palazzo Chigi, i ministri del Pd se lo sono detti, tra loro, che Matteo Renzi avrebbe graziato Alfonso Bonafede in Senato anche per effetto di un accordo sulla Rai. Renzi vuole contare, su tutto (e qualcosa ne sa il suo amico e agente televisivo Lucio Presta). Dunque è con Renzi che negli ultimi giorni ha molto discusso Dario Franceschini, lui che nel contempo filava la lana anche con Giuseppe Conte e Vincenzo Spadafora, ministro dello Sport, ribattezzato il grillino dal volto umano, l’ex collaboratore di Francesco Rutelli. Spadafora è considerato “un quasi Pd”, d’altra parte quando era ragazzo vide muoversi Walter Veltroni molto da vicino, e da tempo a occuparsi di Rai ci prova gusto: riceve telefonate da manager e giornalisti, consiglia, la sera partecipa a feste e festicciole (pre-Covid): “Se non avessi fatto politica, sarei diventato un presentatore tv”. E allora è proprio con lui che Renzi e Franceschini hanno concordato il piano, malgrado l’altro grillino patito di nomine pubbliche, cioè Stefano Buffagni, abbia manifestato perplessità al punto da avere anche auspicato che Salini resista ancora un po’, quanto basta per dare a Luigi Di Maio il tempo e il modo di studiare meglio le mosse, per difendere la posizione del M5s.

 

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Ma Salini vuole lasciare adesso. E ha fretta, pare. Infatti avrebbe ancora un anno di contratto, ma sa che non sarà riconfermato, e se non vuole incappare nella perniciosa clausola di “non competizione” – che gli impedirebbe dopo la Rai di andare a lavorare alla concorrenza, per esempio a Netflix – deve dimettersi in anticipo sulla scadenza. Ragione per la quale attorno a lui, e sopra di lui, si è messo tutto in moto. L’amministratore delegato lo sceglierà il Pd con il benestare di Renzi e il silenzio assenso dei grillini (che intendono rifarsi, ma è cosa assai difficile, sul presidente della Rai, il leghista Marcello Foa). Si fanno tre nomi, per adesso, tre ipotesi tutte diverse: Paolo Del Brocco, dirigente Rai, la soluzione interna, garanzia di un patto allargato a Gianni Letta. Nicola Maccanico, il manager di Sky che rappresenta la soluzione di mercato. E infine Fabio Vaccarono, l’amministratore delegato di Google Italia che molto piacerebbe (forse troppo) a Davide Casaleggio, ma incredibilmente adesso piace poco ai grillini. 

 

E insomma come sempre capita la Rai descrive le scomposizioni e le ricomposizioni del potere politico, rivela chi conta di più e chi di meno. Casaleggio, che sempre prova a infilarsi dovunque e da tutti riceve ancora telefonate e richieste d’incontro, nella sua ambigua e duplice veste d’imprenditore e capobastone non riesce più tanto a imporre le cose ai suoi ex schiavi-parlamentari. Il M5s, che si rende all’incirca autonomo da Casaleggio ed è ancora di gran lunga il primo partito rappresentato alla Camera e al Senato, tuttavia non riesce più a imporsi sul Pd, che puntualmente gli rinfaccia disastri su tutta la linea. E infine Renzi, che minacciava di fare naufragare il governo da lui propiziato e fatto nascere l’estate scorsa, ha riscoperto la dimensione antica della politica, l’equilibrismo, la trattativa serrata, il baratto. E in questa ginnastica, non a caso, si trova benissimo con Franceschini che la pratica da sempre, visto che tra loro il doppio passo incrociato sulla Rai è un giro di valzer che si estende alla nomina dell’Agcom (l’autorità andrà ad Antonello Giacomelli, deputato amico di Franceschini e ora benedetto anche da Renzi che prima aveva posto un veto sul suo nome). Ma non solo. Ci sono pure le deleghe ancora vacanti sulle Telecomunicazioni, al governo. Tutto si tiene. Tutto è materia di scambio, dentro, fuori, sopra e sotto la Rai.

 

Eppure la televisione di stato, oltre a essere una terra di avventure per i politici italiani che di volta in volta si affacciano sul proscenio dichiarando di volerla liberare dal giogo dei partiti (salvo fare esattamente l’opposto), è anche un’impresa che avrebbe – in teoria – il diritto a essere ben amministrata. Non solo perché è un patrimonio pubblico nazionale e una risorsa culturale (mal impiegata), non solo perché potrebbe essere il volano dell’industria audiovisiva italiana nel mondo, ma forse anche perché con i suoi circa tredicimila dipendenti – se non ben guidata – la Rai è anche soprattutto in potenza una bomba sociale capace di oscurare persino la tragedia (e il salasso) di Alitalia. E le cose non vanno bene. Il bilancio del 2020 potrebbe chiudersi senza utili, o con un lieve disavanzo. Il management è incartato dall’incertezza politica, in azienda tutti hanno paura di tutto e rimangono fermi per prudenza o opportunismo. Il piano industriale sbandierato è ben lungi dal poter funzionare. “Si tira a campare”, dice uno degli storici giornalisti Rai. In un ambiente sospeso, in cui la litigiosità interna che contribuisce all’impasse, ed è effetto degli appetiti della politica, ha portato al paradosso di una serie di nomine apicali, anche nelle direzioni giornalistiche, che sembrano essere state dettate più dall’esigenza di accontentare la logica spartitoria che da coerenti scelte operative. E in alcuni casi, addirittura, si è finiti alle carte bollate. A chi, nelle settimane passate, gli chiedeva come andassero le cose, Mario Orfeo, che si considerava demansionato (prima della nomina alla direzione del Tg3) raccontava che “non solo ho fatto causa all’azienda, ma anche a Salini personalmente”. E del resto, pare che iniziative legali simili siano state prese anche da altri, da Franco Di Mare, Teresa De Santis, Monica Maggioni… La soluzione di Salini, in genere, è stata quella di promuovere e restituire incarichi a tutti (o a quasi tutti). Vuole andarsene, ed evitare rogne. Difficile possa essere sostituito, per solo un anno (i vertici aziendali scadono a luglio 2020) e nelle condizioni appena descritte, da un manager davvero competitivo sul mercato dell’editoria televisiva. Chi vorrebbe infilarsi in un pasticcio del genere, e senza nemmeno una prospettiva lunga? Intanto, in Parlamento e nei corridoi di Palazzo Chigi, c’è chi sta compulsando la legge (di Renzi) che ha ridisegnato il funzionamento della Rai, per trovare il modo di licenziare il cda, il presidente, e ricominciare approfittando dell’uscita di Salini: mandare via quel che resta della Lega e del vecchio equilibrio gialloverde. Ma non è evidentemente un progetto finalizzato al rilancio dell’azienda. E’ la solita vecchia storia che si ripete. Andrà avanti così, finché non sarà tardi.

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