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No: la disobbedienza non è più una virtù

Giuliano Ferrara

Agire da cittadini conformisti, quando il conformismo è senso di responsabilità generale

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La disobbedienza non è più una virtù. Ribellarsi è sempre stato un gesto di libertà e in certi casi di responsabilità. Disobbedire agli ordini criminali un atto di eroismo. Insubordinarsi contro le angherie, le prepotenze, nel pubblico e nel privato, una benedizione. Alcuni elementi dell’etica umana sono inattaccabili, irreversibili, e bisogna ringraziare il corso del tempo che ci ha fatto vivere ormai da molti decenni, da quando prevaleva l’irregimentamento totalitario in forme diverse ma convergenti, nel mondo nazifascista e in quello del comunismo reale, fuori dell’ordine di stato e dell’ideologia coatta. Questo non vuol dire che siamo divenuti liberi in senso assoluto. Siamo schiavi della lotta per la sopravvivenza. Ci immoliamo ai nostri pregiudizi, non quelli accettabili della tradizione, bensì quelli fatti di bel nuovo e non esaminati da storia e circostanze. Il relativismo morale ci mette al sicuro, noi ma non gli altri. La secolarizzazione e la parte migliore dell’illuminismo, quello inglese, scozzese, napoletano, milanese, e liberale francese, ci hanno indicato la strada dell’autonomia e dell’autogoverno. La decristianizzazione ha però indebolito il concetto di persona come centro di relazioni e soggetto simmetrico di bene e di male, obbligato e autorizzato a una scelta.

 

Poi viene un momento, e questo è il momento, in cui una limitata e temporanea adesione, senza troppe discussioni, senza renitenze petulanti e stridule, alle regole dettate dall’esecutivo e ratificate da maggioranze parlamentari, da governatori, sindaci, prefetti, carabinieri, poliziotti, padri, madri, nonni e figli responsabili, con la guida collettiva e ufficiale di esperti, di medici, di scienziati, di istituzioni della salute pubblica è un dovere stringente verso noi stessi e verso gli altri. Per sua natura il potere è soggetto all’errore, e il potere assoluto all’errore assoluto. Esistono anche poteri assoluti, come in Cina, come in Russia, che si sostengono imboccando una via opportuna e media nel governo dispotico della salute comune. Ma da noi, nell’Europa sfuggita alle grinfie del nuovo dispotismo delle masse, in questo continente e occidente ancora fatto di elezioni libere e di libera stampa, obbedire vuol dire obbedire a sé stessi.

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La renitenza di poteri forti a prendere misure forti, la riluttanza di poteri economicamente radicati in una cultura capitalistica antica, originaria e fondativa, come in Germania, in Francia, in Inghilterra, e per certi aspetti nella sventurata America trumpista, tutto questo si capisce anche fin troppo bene. Ci sono aree del mondo in cui l’economia è l’alfa e l’omega della vita civile, e la grande scrematura dei vecchi e dei malati, insieme con la mobilitazione degli interessi finanziari e industriali prevalenti, fa aggio su tutto il resto. Finirà anche lì, anche lì arriverà la terza fase draconiana, perché un virus è un virus, e la sua propagazione richiede non già “uno stile di vita più attento”, ridicolo eufemismo, ma una temporanea conversione ad altro delle nostre multiformi mobilità e attività. Poi ci sono paesi come il nostro, nazioni culturali e di origine contadine, arrivati tardi al benessere su larga scala e al gusto dell’onnipotenza, in cui chi ha pensato di combattere l’epidemia e la pandemia con slogan grotteschi tipo “Milano non si ferma” è stato se Dio vuole sconfessato, si è rapidamente pentito, e oggi si conforma come necessario a una drastica riduzione della libertà di movimento e di relazioni che il contrasto all’epidemia richiede tassativamente. Rendere grazie a questa specificità italiana, che si è incontrata con un casuale o comunque misterioso primato dell’espansione epidemica, significa ora agire da cittadini conformisti, quando il conformismo è senso di responsabilità generale. Ricordandosi sempre che in due settimane siamo già arrivati al punto che autorità sanitarie sono costrette a dichiarare: “Scegliamo chi curare e chi no come in guerra”.

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