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Politici in quarantena

Valerio Valentini

Il referendum rinviato, le Camere sono socchiuse, i partiti si fermano. Guida alla politica a porte chiuse

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Roma. Che la decisione fosse nell’aria, lo si capiva in effetti già mercoledì mattina. Quando, in un corridoio di Palazzo Madama, il forzista Antonio De Poli istruiva un manipolo di suoi colleghi senatori: “Nel collegio dei questori ci siamo pure posti il problema della disinfestazione: ma per ripulire a fondo tutti i locali, servirebbero 16 o 17 macchine”. Al che Roberto Calderoli, col solito pragmatismo lumbàrd, troncava sul nascere qualsiasi congettura: “Nelle casse della presidenza al momento ci sono 160 mila euro spendibili. Evitiamo qualsiasi fantasia”. Ed è in quel momento che arrivando, Paola Binetti scioglieva la seduta: “Questi assembramenti sono vietati. Dobbiamo stare tutti a un metro di distanza”. Ma a pochi metri da loro, Pier Ferdinando Casini, che una Camera l’ha presieduta, scuoteva il capo: “Io sono molto preoccupato, altroché”. 

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Roma. Che la decisione fosse nell’aria, lo si capiva in effetti già mercoledì mattina. Quando, in un corridoio di Palazzo Madama, il forzista Antonio De Poli istruiva un manipolo di suoi colleghi senatori: “Nel collegio dei questori ci siamo pure posti il problema della disinfestazione: ma per ripulire a fondo tutti i locali, servirebbero 16 o 17 macchine”. Al che Roberto Calderoli, col solito pragmatismo lumbàrd, troncava sul nascere qualsiasi congettura: “Nelle casse della presidenza al momento ci sono 160 mila euro spendibili. Evitiamo qualsiasi fantasia”. Ed è in quel momento che arrivando, Paola Binetti scioglieva la seduta: “Questi assembramenti sono vietati. Dobbiamo stare tutti a un metro di distanza”. Ma a pochi metri da loro, Pier Ferdinando Casini, che una Camera l’ha presieduta, scuoteva il capo: “Io sono molto preoccupato, altroché”. 

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E così, l’idea di assumere una decisione irrevocabile ha continuato a serpeggiare sul parquet del Senato. “Non è da escludere”, diceva il capogruppo del M5s, Gianluca Perilli, “ma lo si valuterà quando e se sarà necessario. Come ci ripete il presidente Conte, ogni scelta va presa sulla base dei princìpi di adeguatezza e proporzionalità”. Un criterio che a Davide Faraone, che guida la pattuglia di Italia viva, convinceva fino a un certo. “Dipendesse da me, chiuderei tutto per quindici giorni. Certo, è una decisione drastica, ma che servirebbe ad arginare ogni rischio per un periodo limitato, e poi poter ripartire con una relativa normalità. Del resto, si rischia di doverci arrivare lo stesso, a quella soluzione. Per cui sì, anche qui alle Camere mi sembrerebbe opportuno”. Anche se, poco più in là, Andrea Marcucci mostrava l’aria di chi la sapeva più lunga: “Basterà diluire il calendario…”, diceva, sornione, il capogruppo del Pd. Prefigurando così la scelta che in effetti, sia pure informalmente, si sta valutando di adottare per provare finché si potrà a salvare le apparenze – chiudere il Parlamento sarebbe l’ennesimo segnale di un paese in emergenza, come pure in effetti è – ma evitare che il virus dilaghi anche nel Palazzo. E del resto è stata, questa, anche la scelta che la conferenza dei capigruppo della Camera ha adottato ieri mattina, stabilendo di concentrare al solo mercoledì le sedute d’Aula, e solo per i provvedimenti urgenti, per tutto il mese di marzo. Al massimo, se verrà accolta la proposta che arriverà da Fratelli d’Italia, si potranno prevedere delle interpellanze urgenti al governo il giovedì. Poi, basta.

 

Il che tradisce una paura che è reale, ai vertici dei partiti. E in fondo Nicola Zingaretti il suo timore lo ha espresso senza remore, nell’incontro svolto coi sindacati al Nazareno lunedì scorso: “Milano è grande quanto un quartiere di Roma, ma se il virus arriva nella Capitale, bisognerà prepararsi a misure draconiane”. La scelta di chiudere le scuole si spiega così. Come quella – ancora al vaglio del Mit – di ridurre significativamente le tratte aeree e ferroviarie. Peppe Provenzano, invece, ai suoi dipendenti del ministero del Sud, ha già concesso l’opzione del telelavoro, che debutta oggi. E se Stefano Patuanelli prosegue la sua quarantena volontaria al Mise, in Via Arenula c’è apprensione per un dirigente dell’Ufficio legislativo del Guardasigilli Alfonso Bonafede, i cui famigliari sono venuti in contatto con un magistrato milanese risultato positivo al tampone faringeo.

 

E’ insomma questo il clima in cui il governo, nel Cdm di ieri, ha deciso quel che ormai a tutti pareva inevitabile: il rinvio del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari, previsto per il 29 marzo. La nuova data non è ancora stata fissata, e non è escluso che la scelta sarà accompagnata dalla consueta nuvolaglia di polemiche. Perché i promotori del No temono l’accorpamento con le regionali o le amministrative di primavera: “Sarebbe un elemento distorsivo, che tra l’altro concentrerebbe l’affluenza in certe zone del paese”, si lamenta Andrea Cangini, senatore azzurro in trincea da mesi, in questa guerra “contro il populismo antiparlamentare” che lui, sotto sotto, spera ancora di vincere. Ma per farlo, servirebbe una bassa affluenza: arrivare alla consultazione quasi in sordina, portando alle urne solo i cittadini più impegnati. “Sarà molto difficile che, col clima che c’è, si apriranno le urne in tre domeniche diverse”, ragiona però il costituzionalista Stefano Ceccanti, deputato del Pd. E d’altronde Vito Crimi, reggente per caso del M5s, sentenzia che no, “non permetteremo che si sprechi neppure un euro, per cui chiederemo di accorpare tutte le consultazioni in calendario”. Come che sia, il primo effetto, e il più importante, il rinvio del referendum lo ha già ottenuto: ha chiuso la finestra elettorale d’autunno, e in buona sostanza anche quella di inizio 2021, che arriverebbe ad appena due o tre mesi dall’inizio del semestre bianco. La legislatura è blindata. Il governo, chissà.

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