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Festina lente: il sentiero stretto di Conte per garantirsi il futuro

Valerio Valentini

Il M5s che si indebolisce rafforza il premier. I grillini si muovono come due partiti. Renzi rinvia la battaglia sulla prescrizione

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Roma. Da un lato c’è la necessità della cautela, per non destabilizzare i già precari equilibri di un M5s allo sbando; dall’altro, a suggerirgli la risolutezza, ci sono l’attivismo di Matteo Renzi e l’ansia di un Pd che sempre più intende affidare a lui la responsabilità di far girare il motore dell’esecutivo. E insomma Giuseppe Conte s’è votato alla dottrina del festina lente, quella di chi sa che deve muoversi, preparare il campo per la sua iniziativa, ma al tempo stesso medita e pazienta, conscio che una mossa intempestiva farebbe precipitare tutto. Perché ormai, con Luigi Di Maio, il marcamento è a uomo: il ministro degli Esteri attende che il premier certifichi il suo connubio col Pd per poi agire di conseguenza. E Conte, che le dimissioni dell’ex capo politico le ha accolte, per bocca dei suoi collaboratori, come “una liberazione”, sa che la crisi del M5s arriverà, e solo a quel punto lui dovrà intervenire. “Non è un mistero che l’idea di Conte di posizionare il M5s nel campo progressista non rispecchi l’idea di tanti di noi”, spiega il sottosegretario Manlio Di Stefano, uno dei pretoriani di Di Maio. “Ed è certo che Luigi, agli stati generali, vorrà far sentire la sua voce, in un modo o nell’altro. Quell’appuntamento servirà a fare chiarezza una volta per tutte”. Anche a costo di non trovare una sintesi? “Costi quel che costi”, ribatte Di Stefano. Mentre il deputato Daniele Del Grosso, scherzando chissà quanto, dice che “il punto non è se il M5s resta fedele a Di Maio, il punto è capire se Di Maio resta nel M5s”.

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Roma. Da un lato c’è la necessità della cautela, per non destabilizzare i già precari equilibri di un M5s allo sbando; dall’altro, a suggerirgli la risolutezza, ci sono l’attivismo di Matteo Renzi e l’ansia di un Pd che sempre più intende affidare a lui la responsabilità di far girare il motore dell’esecutivo. E insomma Giuseppe Conte s’è votato alla dottrina del festina lente, quella di chi sa che deve muoversi, preparare il campo per la sua iniziativa, ma al tempo stesso medita e pazienta, conscio che una mossa intempestiva farebbe precipitare tutto. Perché ormai, con Luigi Di Maio, il marcamento è a uomo: il ministro degli Esteri attende che il premier certifichi il suo connubio col Pd per poi agire di conseguenza. E Conte, che le dimissioni dell’ex capo politico le ha accolte, per bocca dei suoi collaboratori, come “una liberazione”, sa che la crisi del M5s arriverà, e solo a quel punto lui dovrà intervenire. “Non è un mistero che l’idea di Conte di posizionare il M5s nel campo progressista non rispecchi l’idea di tanti di noi”, spiega il sottosegretario Manlio Di Stefano, uno dei pretoriani di Di Maio. “Ed è certo che Luigi, agli stati generali, vorrà far sentire la sua voce, in un modo o nell’altro. Quell’appuntamento servirà a fare chiarezza una volta per tutte”. Anche a costo di non trovare una sintesi? “Costi quel che costi”, ribatte Di Stefano. Mentre il deputato Daniele Del Grosso, scherzando chissà quanto, dice che “il punto non è se il M5s resta fedele a Di Maio, il punto è capire se Di Maio resta nel M5s”.

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Per questo Conte pazienta, sa che il redde rationem arriverà, presto o tardi, ma non dovrà essere lui a invocarlo. Nel frattempo, mantiene una linea diretta col Quirinale, seguendone le indicazioni con lo zelo dello scolaro ubbidiente. Fosse stato per lui, ad esempio, il referendum sul taglio dei parlamentari lo si sarebbe convocato in estate, così da tirarla in lungo fino a settembre con la ridefinizione dei collegi e arrivare indenni alla sessione di bilancio. E invece dal Colle ha ricevuto un suggerimento opposto, che mira pure quello alla blindatura della legislatura ma in modo meno ardimentoso: meglio anticipare la consultazione e stoppare ogni tentazione di crisi. E così alla fine il referendum è stato convocato per il 29 marzo.

 

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Intanto Conte prepara le truppe, raduna i soldati fedeli a una certa idea di riformismo, risolutamente ostili a un ritorno di fiamma con la Lega. E con lui ci sono, più o meno dichiaratamente, una buona metà dei membri di governo del M5s. C’è Stefano Patuanelli, ovviamente. E c’è Lucia Azzolina, la titolare dell’Istruzione che, col tono deciso, dice che “tutto è incerto, ma io so che col Pd stiamo lavorando bene e che con Salvini, il citofonista, non voglio più avere nulla a che fare”. E c’è Federico D’Incà, metronomo del Parlamento, che asseconda gli umori del premier disinnescando come può i possibili incidenti. Lo si è visto anche ieri. Quando, improvvisando un azzardo che avrebbe esposto la maggioranza alla roulette dei voti segreti, un manipolo di membri di governo del M5s – dalla Castelli a Buffagni, da Sibilia a Tofalo – aveva ipotizzato di tenere il punto sulla riforma Bonafede, votando contro il rinvio in commissione del pdl Costa e affossandolo in Aula: “Così vediamo se i renziani vanno fino in fondo”. E allora è toccato a D’Incà, d’intesa col premier, sminare il campo, convincere tutti a evitare strappi, col risultato che alla fine Italia viva ha disertato il voto. Perché, nel vertice pomeridiano, i tre più pugnaci della ciurma renziana – Roberto Giachetti, Davide Bendinelli e Cosimo Ferri – si sono adeguati alla linea non belligerante di Maria Elena Boschi. Il che dà il segno di un Renzi inquieto ma al dunque cauto, che per ora si limiterà ad allargare la pattuglia in Parlamento (la prossima settimana entreranno in Iv due deputati e due senatori forzisti).

 

E però, rimuovere Conte da Palazzo Chigi è impresa ardua. Se ne è convinto anche Giancarlo Gioregtti, che ieri pomeriggio ha chiesto a Luca Lotti se ci fosse aria di rimpasto, realizzando che però no, non è all’ordine del giorno: “Perché togliere Conte significherebbe mandare ancora più in fibrillazione il M5s”. E però, se è vero che sostituirlo è sconsigliabile, è vero anche che Conte resta intoccabile proprio perché su di lui incombe la responsabilità di puntellare il partito di maggioranza relativo. Ma temporeggiare, e mediare, non può essere confuso col cincischiare. E così Andrea Giorgis, sottosegretario alla Giustizia di fede orlandiana, al termine dell’ennesima giornata sudata a sopire le tensioni sulla prescrizione, allarga le braccia: “Ora, però, Conte faccia il premier. La trovi lui una soluzione, su questo come sul dossier autostrade”.

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