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Il M5s c’è ma non si vede

Luciano Capone

Sconfitto e ininfluente. Se il movimento non si fosse presentato, come voleva Di Maio, avrebbe fatto miglior figura

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Roma. Alla fine, per un partito che si sta sbriciolando, la strategia più lucida era quella di Luigi Di Maio: per il M5s era molto meglio non presentarsi alle regionali. Se non avesse partecipato alla competizione sarebbe potuto apparire determinante per la vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna: il M5s avrebbe potuto vantarsi di valere almeno quell’8 per cento – che è il distacco che ha consentito a Bonaccini di battere la Borgonzoni – e il Pd avrebbe finito per crederci vista la voglia di allearsi. Sarebbe stato il vero battesimo dell’“alleanza organica”, che avrebbe cancellato il disastroso esordio in Umbria. Il bluff era l’unica mossa per fingere un po’ di peso politico e invece il M5s ha deciso di salire sulla bilancia. 

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Roma. Alla fine, per un partito che si sta sbriciolando, la strategia più lucida era quella di Luigi Di Maio: per il M5s era molto meglio non presentarsi alle regionali. Se non avesse partecipato alla competizione sarebbe potuto apparire determinante per la vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna: il M5s avrebbe potuto vantarsi di valere almeno quell’8 per cento – che è il distacco che ha consentito a Bonaccini di battere la Borgonzoni – e il Pd avrebbe finito per crederci vista la voglia di allearsi. Sarebbe stato il vero battesimo dell’“alleanza organica”, che avrebbe cancellato il disastroso esordio in Umbria. Il bluff era l’unica mossa per fingere un po’ di peso politico e invece il M5s ha deciso di salire sulla bilancia. 

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Certo, la decisione di non presentarsi neppure era difficile da far digerire ai militanti e questo imbarazzo lo si è notato già nella motivazione, che formalmente era quella di nominare i “facilitatori” del “team del futuro” per organizzare gli “Stati generali” che avrebbero dovuto rigenerare il movimento. E poi nel quesito che chiedeva una “pausa elettorale” e nella solita confusione, dello stesso capo politico, sul votare sì per dire no o viceversa. Il fatto è che non bisognava proprio arrivare a quel punto, alla votazione, ma come spesso accade a prevalere – anche sul capo politico – su una questione così delicata è stato il vero sovrano del M5s, colui che schmittianamente decide sullo stato di eccezione, Davide Casaleggio. E così, quando Rousseau ha battuto Di Maio (70 per cento contro 30 per cento), proprio in quel momento, il M5s ha perso sia le elezioni che il suo capo politico.

 

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Decidendo di presentarsi alle regionali, di salire sulla bilancia elettorale, il M5s ha rinunciato al bluff e mostrato tutta la sua irrilevanza: 3-4 per cento in Emilia-Romagna e 6-7 per cento in Calabria. La partecipazione della prima forza politica del paese si è così rivelata inutile sia per sé stessa (nessun consigliere eletto in Calabria e pattuglia dimezzata in Emilia) sia per le altre altre (ininfluente sulla sfida tra centrodestra e centrosinistra in entrambe le regioni). In questo senso il M5s è probabilmente il primo partito della storia democratica a perdere rovinosamente per non essere riuscito a non candidarsi. Dell’esito disastroso della scelta di farsi contare era ben consapevole Di Maio, che infatti si è tolto la cravatta – si è cioè dimesso da capo politico – quattro giorni prima dell’apertura delle urne, lasciando il partito orfano di un leader e di qualcuno a cui attribuire la responsabilità della sconfitta. Anche questa mossa d’anticipo indica che Di Maio resta indiscutibilmente il più sveglio e intelligente del partito (e questo più che un giudizio sulla qualità del ministro degli Esteri è indicativo del livello della classe dirigente del M5s).

 

Il movimento ha già perso presentandosi, dicevamo. Ma i risultati mostrano una disfatta più pesante di quanto si potesse immaginare. Il 3,5 per cento in Emilia-Romagna, la regione dove il M5s è nato con il V-day di Bologna nel 2007 e dove ha ottenuto i primi trionfi elettorali con le regionali del 2010 e la conquista di Parma nel 2012, è un tonfo senza precedenti. E’ il risultato peggiore nella storia del M5s in Emilia-Romagna, che arriva dopo che il vertice ha decapitato la sua classe dirigente locale migliore (l’ex giovane promessa Giovanni Favia e il sindaco Federico Pizzarotti sono gli esempi più significativi): è la tomba del “movimento delle origini” e delle liste civiche autonome “dal basso”, sacrificate dal centralismo autocratico sull’asse Roma-Milano, che ha preferito anonimi yes man (il candidato presidente Simone Benini, quello di cui Danilo Toninelli non ricordava neppure il nome, ha commentato la débâcle elettorale con un: “Sono soddisfatto del risultato”).

 

Il risultato in Calabria invece ha sancito il fallimento del M5s di governo, per certi versi molto diverso da quello delle origini. In Calabria, come nel resto del Mezzogiorno, il M5s aveva ricevuto consensi enormi per le sue proposte politiche redistributive e assistenzialiste: il 43 per cento alle politiche del 2018, sceso poi al 27 per cento alle europee del 2019, infine il 6 per cento delle regionali. Neppure un eletto. Un tracollo, se si considera che i calabresi sono stati tra i maggiori beneficiari del Reddito di cittadinanza. In Calabria il M5s ha preso 48.669 voti, molto meno del numero dei percettori di Reddito di cittadinanza (69.837 nuclei familiari per un totale di 173.977 persone coinvolte). Aveva ragione Di Maio, era meglio non presentarsi.

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