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Perché il governo valuta l’opzione Minniti in Libia

Salvatore Merlo

Inviato speciale dell’Europa. Una strategia “win-win” per un esecutivo in cerca di una via d’uscita. Dubbi a sinistra

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Roma. Al centro del pasticciaccio libico, di questo ingorgo in cui si stanno misurando l’assenza europea e l’afasia italiana, ecco che spunta la pelata metodica e tenace di Marco Minniti, l’ex ministro dell’Interno, l’uomo che forse più di chiunque altro saprebbe come muoversi nei labirinti bellicosi di quello che una volta veniva chiamato lo scatolone di sabbia.

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Roma. Al centro del pasticciaccio libico, di questo ingorgo in cui si stanno misurando l’assenza europea e l’afasia italiana, ecco che spunta la pelata metodica e tenace di Marco Minniti, l’ex ministro dell’Interno, l’uomo che forse più di chiunque altro saprebbe come muoversi nei labirinti bellicosi di quello che una volta veniva chiamato lo scatolone di sabbia.

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Ieri Frans Timmermans, socialista olandese e primo vicepresidente della Commissione, ha detto a Paolo Valentino, sul Corriere della Sera, che in Libia “ci vorrebbe una personalità come Minniti”. L’uscita di Timmermans a quanto pare non è rapsodica, ma un tentativo condiviso seppur ancora informale all’interno della Commissione di individuare assieme all’Italia la figura di un “inviato speciale” dell’Europa sul campo: un plenipotenziario. Un uomo con un compito da non dormirci la notte: non soltanto dare una voce unica all’Europa, recuperando e tutelando gli interessi dell’Italia e dell’Unione, ma soprattutto un tecnico (e politico) che sappia impedire per la Libia una soluzione “alla siriana”, cioè una spartizione di quel paese tra russi e turchi. Interrogato direttamente dal Foglio, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, pur senza sbilanciarsi sul nome di Minniti, non esclude affatto l’ipotesi. Anzi. E così la pensa pure Luigi Di Maio. Un inviato europeo, ma italiano, ragionano in queste ore nei palazzi della politica, metterebbe il governo di fronte a una situazione ottimale dopo settimane di inerzia straziante. Avesse successo, sarebbe una vittoria da rivendicare per i rossogialli. Fallisse, sarebbe solo colpa dell’Europa.

 

Anche Luigi Di Maio valuta con attenzione la proposta informale e implicita che arriva dal vicepresidente della Commissione europea. Il ministro degli Esteri, che si trova da settimane investito da una crisi evidentemente più grande di lui, alle prese com’è con avvenimenti che fanno tremare persino ai diplomatici di grande esperienza (e i reparti della nostra intelligence), pare infatti disponga – così almeno dicono i suoi amici – di quel pregio socratico che per esempio ha portato Conte a circondarsi di una squadra di funzionari molto competenti, tra cui l’ambasciatore Pietro Benassi. E insomma “Di Maio sa di non sapere”, dicono adesso i tecnici della Farnesina, senza alcun intento satirico. “Di Maio sa migliorarsi con umiltà”. Fosse vero sarebbe già molto, moltissimo. Così ieri mattina, il ministro, a chi gli chiedeva una valutazione a caldo su Minniti, a quanto pare rispondeva con interesse: “E’ un’idea”. Malgrado finora risulti che Di Maio si sia consultato soltanto con Franco Frattini, che era ministro degli Esteri durante l’attacco in Libia del 2011 ed era anche uno dei più convinti sostenitori dell’intervento militare.

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Sessantatré anni, deputato del Pd, nel centrosinistra Marco Minniti è forse un caso unico. E’ l’uomo che più di tutti è stato al governo in questi anni: sottosegretario alla presidenza del Consiglio dal 1998 al 2000, poi sottosegretario alla Difesa fino al 2001, poi viceministro dell’Interno dal 2006 al 2008, poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti dal 2013 al 2016, con Renzi, e solo nel 2016 ministro dell’Interno, per la prima volta, dopo vent’anni. Solista, forse persino solitario, fuori dalle cordate e dalla vita di corrente, per una parte della sinistra italiana, quella più a sinistra, è diventato un destrorso da dimenticare, da bruciare in effigie, il “mostro dei lager libici”, perché Minniti ha tentato di rovesciare l’identità veltroniana del multiculturalismo, la stagione che spinse Enrico Letta a nominare Cécile Kyenge ministro. Mentre per l’altra parte della sinistra, quella che un tempo faceva riferimento a Matteo Renzi, anche lì è quasi un traditore, proprio perché in cordata, lui, non ci si è voluto mettere. Contro Minniti, la sinistra-sinistra, non ci vuole molto a prevederlo, farà barricate ideologiche. Eppure, stimatissimo da Paolo Gentiloni e dal presidente Sergio Mattarella, considerato in Europa come dimostra Timmermans, Minniti è stato il tessitore dell’accordo con la Libia sull’immigrazione, il ministro che ha fermato gli sbarchi e siglato i patti con l’islam italiano affinché le moschee fossero registrate e gli imam caldamente invitati a predicare nella nostra lingua, in modo tale da essere compresi (e dunque controllati).

 

A dicembre del 2017, in segreto, Minniti aveva portato a Roma i capitribù della Libia, gli uomini che in realtà governano il paese: Tuareg, Sulimani, Tebù, quegli uomini dalle facce cotte dal sole con i quali ancora oggi bisognerebbe discutere e contrattare. Volti che sembravano usciti da un romanzo di Kipling, gente che si era fatta la guerra per anni e che ora si ritrovava improvvisamente riunita al ministero dell’Interno, per siglare un accordo, proprio nella stanza accanto a quella che al Viminale fa da studio del ministro. E insomma conosce tutti, Minniti. Sa tutto della Libia, pure nelle sue pieghe più riposte. Ed è infatti, ancora adesso, a quanto pare, un consulente informale – e appassionato – dei tecnici italiani che operano sul quadrante libico. La diplomazia certo, ma anche i servizi segreti.

 

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Un italiano “inviato speciale dell’Europa in Libia”, dunque. Un’ipotesi avanzata informalmente dalla Commissione europea, e in questo momento al vaglio del governo italiano, in maniera altrettanto informale, proprio nelle ore in cui ieri a Roma Giuseppe Conte incontrava uno dei contendenti sul campo della guerra civile, Khalifa Haftar, e riceveva invece un rifiuto e uno sgarbo dall’altro belligerante, Fayez al Serraj. Un’ipotesi e un incarico, quello dell’inviato speciale, che adesso offrono opzioni considerate molto interessanti dai palazzi della politica italiana sempre attenti come sono, per tradizione e antropologia, agli aspetti più cinicamente (o prosaicamente) elettoralistici anche delle faccende serie. Se infatti il lavoro dell’inviato italiano dovesse funzionare, sarebbe un successo del governo, che per interposta bandiera europea recupererebbe anche una insperata leadership nella Libia da cui l’Italia è stata di fatto estromessa. Se invece malauguratamente l’inviato dovesse fallire, sarà soltanto colpa dell’inviato stesso e dell’Europa per la quale operava. Niente più critiche sull’incapacità balbuziente di Di Maio, dunque, o sulla retorica inconcludente di Conte. Mentre al contrario – nel brevissimo periodo – in coincidenza con le elezioni regionali, questa mossa offrirebbe al pubblico l’idea di un governo che dopo mesi di inerzia agisce su un quadrante strategico fondamentale per gli interessi, non solo economici ma anche di sicurezza, dell’Italia. Insomma l’inviato speciale dell’Unione europea, fosse anche Minniti, sarebbe il perfetto capro espiatorio per una politica e un governo che si muovono come sempre tra furbizia e stupidaggini, affermazioni gratuite, indicazioni sbagliate e complessi spaventevoli. Un governo immerso in quella condizione, tra il comatoso e il febbricitante, che aveva spinto a immaginare l’individuazione di un inviato speciale del governo italiano in Libia nella figura dell’ex ministro Frattini, che proprio martedì si esibiva in un’intervista nella quale di fatto spiegava che la soluzione libica sta nell’affidarsi alla Russia. L’intervista, ieri, ha probabilmente tolto di mezzo la sua candidatura (c’è Mattarella al Quirinale), perché – come dice un vecchio ambasciatore – “affidarsi a santa madre Russia equivarrebbe alla capitolazione non dico dell’Italia ma dell’occidente sul quadrante nordafricano”. E Minniti? Potrebbe produrre il paradosso di mettere d’accordo Meloni e Conte, ma non la sinistra a sinistra del Pd.

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