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Dimentichiamo gli antisemiti ma non l'antisemitismo

Giacomo Kahn

I nomi degli odiatori seriali non contano, se non per gli aspetti penali. Ma non sono da dimenticare le loro azioni. E dobbiamo saper reagire ed indignarci ad ogni nuova provocazione, ad ogni ripetuta negazione

Nel suo ultimo libro Le verità nascoste (Rizzoli), Paolo Mieli racconta alcuni eventi epocali che hanno segnato la storia dell’umanità, pagine che tradizionalmente sono state raccontate secondo una versione istituzionalizzata ma che al contrario celano verità mai narrate, indicibili, negate e capovolte. Mieli propone trenta episodi di manipolazioni storiche, a volte prodotte da falsi d’autore come nel caso del diario di Galeazzo Ciano, a volte tentativi di slittamenti interpretativi, a volte vere e proprie macchinazioni politiche.

 

Il libro di Mieli si conclude con un capitolo dal titolo Il sano esercizio della dimenticanza, nel quale avanza la proposta che la “dimenticanza” sia parte integrante della memoria e lo fa con alcuni esempi: nel V secolo a.C. l’ateniese Trasibulo dopo aver sconfitto la tirannide dei Trenta impose un “patto dell’oblio” che vietava di “rinvangare il passato”; stesse finalità ebbero l’Editto di Nantes (1598) e la pace di Vestfalia (1648); ad una pacificazione sociale mirò l’amnistia concessa da Palmiro Togliatti (1946) agli ex fascisti; e lo stesso fu per il patto dell’oblio voluto in Spagna (1975) con la fine della dittatura di Francisco Franco; e più recentemente (2017) un patto dell’oblio fu firmato in Colombia ponendo fine a oltre cinquanta anni di guerra civile.

 

Si può essere d’accordo con Mieli che a volte dimenticare è un bene? Si può accogliere l’idea che, in alcuni casi un colpo di spugna sulle responsabilità di chi ha causato tragedie e ingiustizie sia la soluzione migliore? Che per giungere ad una pacificazione degli animi, per abbandonare la conflittualità e consentire di dare vita a una una società fondata su un sentimento unitario e non più rivendicativo, sia necessaria una certa dose di oblio, di dimenticanza?

 

E’ evidente che una prolungata fase recriminatoria e una successiva altrettanto lunga fase risarcitoria (non necessariamente solo economica, ma talvolta più spesso morale), recano in sé il rischio di allargare il fossato tra le componenti della società. E quindi queste dinamiche dovrebbero essere limitate, per giungere effettivamente ad un momento in cui è giusto, anzi è salutare, abbandonare una conflittualità legata al passato, gettandosi alle spalle “chi” ha fatto cosa. Ma non “cosa” è stato fatto.

Gestire la memoria senza esserne sopraffatti, è un sentiero molto stretto: da un lato vi è il rischio di non portare mai a termine l’elaborazione di quanto accaduto, ma dall’altro c’è il rischio che un eccesso di oblio porti all’amnesia. E contro l’amnesia l’unica medicina è la verità. Se viene a mancare la verità vi è la disgregazione e la frammentazione.

 

Il pensiero ebraico si è molto soffermato sul concetto di verità e di memoria. In ebraico verità si esprime con una parola di tre lettere emet (alef, mem, tav) che sono la prima lettera dell’alfabeto, la lettera centrale e l’ultima, come a dire che nella verità si racchiude tutto – l’Alfa e l’Omega - tanto è vero che Dio viene anche definito “Giudice di Verità”.

Ma che succede se viene a mancare anche solo un pezzetto della verità? Senza la prima lettera, senza la alef, rimane la parola met – morte. Negare la verità vuol dire produrre un pensiero distruttivo. E’ quello che fanno i negazionisti della Shoah, e i neo-antisemiti quelli che non attaccano direttamente gli ebrei, ma che negano a Israele il diritto di esistere e di difendersi.

 

La cronaca di questi giorni è ricca di esempi: il professore universitario di Siena che inneggia a Hitler, portandolo ad esempio; i 19 membri di un gruppo neonazista operante in mezza Italia, arrestati dalla Digos, che tra armi, simboli e tentativi propagandistici miravano a costituire un movimento d’ispirazione apertamente filonazista, xenofobo ed antisemita; i seminatori di odio che dalle pagine del web ogni giorno negano le camere a gas o minacciano la senatrice Liliana Segre.

I loro nomi – se non per gli aspetti penali – non contano, sono odiatori seriali, personaggi diversi ma che hanno in comune la negazione della verità: dalla donna che si faceva fotografare davanti ad un forno con la sciarpa pro Palestina; ad una ragazza con indosso una maglietta che ironizzava sulla Shoah con la scritta “Auschwitzland”; fino a coloro che - dentro l’Onu e forse anche dentro l’Unione Europea - dicono che non c’è mai stata una presenza ebraica sulla spianata del Monte a Gerusalemme. Sono tutti personaggi da cancellare dalla memoria dei nostri pc, come dalla memoria collettiva. Ma non sono da dimenticare le loro azioni.

 

Nella Torah (Deuteronomio 25, 17) c’è un preciso e curioso comandamento che riguarda il concetto di memoria e che recita: “Ricorda ciò che ti ha fatto Amalek”, imponendo di ricordare perennemente il primo persecutore del popolo ebraico - il precursore dell’antisemitismo - di colui che portò gratuitamente violenza e morte, attaccando il popolo stanco ed inerme nel deserto. Ma il comandamento non finisce qui, si conclude con un’ultima frase: “Cancellerai il nome di Amalek di sotto il cielo”. Che cosa strana: ricordare ciò che ha fatto il tuo nemico, ma allo stesso tempo cancellarne il nome. Sembrerebbe una contraddizione. Ma non è così. Anzi appare come un insegnamento su come comportarsi con i neo antisemiti: dimenticarci di loro, dei loro inutili nomi, ma ricordarci sempre delle loro azioni, essere delle sentinelle, saper reagire ed indignarci ad ogni nuova provocazione, ad ogni ripetuta negazione. Il ricordo infatti non deve essere una visione “museale” dei fatti, non deve diventare un atteggiamento passivo. Il ricordo deve invece trasformarsi in azione, in un lavoro continuo, soprattutto educativo, per costruire un futuro che non neghi la verità. Solo così si può capire la curiosa “dimenticanza” del vocabolario usato dalla Bibbia Ebraica nel quale non esiste la parola “storia”. Al suo posto - scritto ben 222 volte - c’è la parola ‘zachor’: ricorda.

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