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I drammi dei grillini allo specchio

Luciano Capone

I 10 anni del M5s ricordano ai militanti che il grillismo può governare solo se sceglie di tradire le sue promesse

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Roma. Tra i malumori dei duri e puri e degli esclusi dai posti di governo e i timori di non riuscire a riempire l’Arena flegrea, si apre a Napoli “Italia 5 stelle”, la festa che celebra i 10 anni del M5s: il partito fondato da un comico attraverso un blog che da due anni governa il paese. Il Movimento, per sua natura magmatico e contraddittorio, è cambiato notevolmente nella struttura e nell’agenda politica: la prova di governo ha avviato un processo di maturazione ma anche di logoramento.

 

L’attuale mappa del potere grillino è rappresentata dalla foto dei “Big 5” che sul blog annuncia l’evento: al centro c’è il Garante Beppe Grillo, ai suoi lati il Presidente Giuseppe Conte e l’Erede Davide Casaleggio, alle estremità – più defilati – il Capo politico Luigi Di Maio e l’Ortodosso Roberto Fico. Grande assente: il Rivoluzionario Alessandro Di Battista.

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Sorprende, per il partito che per anni ha invocato l’“uno vale uno” e la democrazia diretta, che i tre personaggi centrali della raffigurazione dell’organigramma grillino siano delle persone non elette o votate direttamente dal popolo: Beppe Grillo, il fondatore, è stato nominato nel ruolo di Garante dai rifondatori Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, ma è capace di esercitare il ruolo di capo politico grazie al suo potere carismatico come si è visto durante la crisi di governo; Davide Casaleggio si ritrova fondatore e controllore di un partito mai fondato, formalmente da tecnico informatico del M5s, ma sostanzialmente per diritto ereditario; Giuseppe Conte sta invece conquistando la leadership del partito dall’esterno, dopo essere giunto al vertice delle istituzioni con un voto del Parlamento (la scatoletta di tonno prima da aprire e poi da buttare). Alle estremità i due politici che invece si confrontano con il consenso elettorale: Roberto Fico, che in questi due anni di conquista del potere si è distinto solo per aver preso una volta l’autobus, e Luigi Di Maio, che nella sua doppia veste di ministro e Capo politico non riesce a fare bene né l’uno né l’altro. Da un lato la sua leadership, in questa fase di istituzionalizzazione del Movimento, è stata erosa e quasi soppiantata dall’ascesa di Conte; dall’altro, da ministro non riesce a essere pienamente lucido e sul pezzo (nonostante Dario Franceschini assicuri che studi i dossier, Di Maio ha sbagliato il nome del Segretario di stato americano Mike Pompeo – cosa che gli era già accaduta con il presidente cinese Xi Jinping).

 

La figura di Di Maio è quella che meglio rappresenta la parabola del M5s, il cittadino comune che passa dalle elezioni municipali di Pomigliano agli incontri istituzionali alla Farnesina. E le difficoltà di una leadership (e di una forza politica) nonostante il raggiungimento degli obiettivi. Perché nonostante il M5s abbia tradito molti dei suoi princìpi, è probabilmente l’unico partito che può presentarsi agli elettori con un elenco di promesse mantenute. Ed è ciò che faranno a Napoli, mostrando agli elettori lo scalpo del taglio dei parlamentari (e del Parlamento) e sbandierando il reddito di cittadinanza e quota 100. Eppure i sondaggi mostrano un M5s ancora in discesa, con 13 punti in meno rispetto a un anno e mezzo fa. Il problema erano le aspettative: alcune promesse (non tutte per fortuna) sono state mantenute, ma il paese non è migliorato. Anzi, per molti versi – ad esempio l’economia – sta molto peggio.

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