Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Il Pd e tutte le ambiguità elettive che avvicinano Zingaretti al M5s

Boschi dice che nel Movimento “ci sono i germi del totalitarismo”. Ma nel Partito democratico più che di tornare a Marx parlano di Di Maio

Roma. Mentre la nuova e un po’ disperata strategia di Luigi Di Maio, impegnato da settimane a travestire da resistenzialista il M5s, sembra cominciare a funzionare, almeno stando ai sondaggi che lo premiano, ecco che nel Pd ritorna serpeggiante la tentazione – ciclica – di corteggiare il Movimento grillino. C’è la linea politica di Repubblica, abbastanza chiara: fuoco solo su Salvini, il fascista amico di CasaPound. C’è persino Marco Travaglio, che l’alleanza Pd-M5s la teorizza da tempo. E c’è poi il partito di Nicola Zingaretti, dove nessuno ne parla esplicitamente, malgrado il matrimonio possibile sembri proprio germogliare sul terreno dell’antifascismo retorico, nella complicità tra Sergio Chiamparino e Chiara Appendino, nell’antisalvinismo dei giornali consanguinei ai due mondi, nelle fino a ieri inimmaginabili carezze di sinistra rivolte alla sindaca di Roma Virginia Raggi. “La sindaca ha fatto bene a difendere la legalità. Ha fatto una cosa giusta”, dice allora Maria Elena Boschi, che questi piccoli segnali deve avvertirli, e non devono piacerle troppo. “Il pericolo fascista non è all’ordine del giorno”, dice infatti, quasi allontanando da sé la suggestione dell’abbraccio resistenzialista con il M5s che sembra avvolgere tanti. “Gli anticorpi ancora resistono nella nostra società”, dice l’ex ministro. Che poi lascia intravedere la linea di resistenza, dentro al Pd, al patto con il diavolo.

 

“Non dimentichiamo però che la cultura totalitaria è presente nel movimento cinque stelle e nell’associazione Rousseau, a cominciare dalla mancanza di democrazia interna al loro partito”, dice Maria Elena Boschi. E insomma non c’è un pericolo fascista, ma non ci sono nemmeno un Matteo Salvini cattivo e un Luigi Di Maio buono. I proconsoli del governo nazional-populista sono entrambi avversari della sinistra. Roberto Giachetti, l’ex candidato alla segreteria che come Boschi viene dal mondo di Matteo Renzi, lo ripete spesso, ogni volta che può, come fa Lorenzo Guerini: allearsi con i Cinque stelle non provocherebbe una scissione della parte più riformista del Pd, “semplicemente farebbe venir meno proprio il progetto stesso del Pd”. Ma chissà.

 

D’altra parte tutti sanno di muoversi su una scenografia in continuo mutamento, instabile, e che soltanto le elezioni europee del 26 maggio stabiliranno finalmente quei nuovi equilibri sui quali – in caso – costruire le ipotesi di un futuro governo o di un’alleanza elettorale. Intanto però ogni cosa viene predisposta, per un cambio di fase, di offerta. Paolo Gentiloni parla con il Foglio, nell’intervista di ieri a Claudio Cerasa, di “quarta via”, lasciando intendere la rottamazione se non proprio di Renzi almeno di un pezzo di quella stagione riformista. Nicola Zingaretti riesce a scrivere nel suo libro appena uscito parole di elogio nostalgico rivolte addirittura all’Unione sovietica. E il ritornato a casa (o quasi) Massimo D’Alema, durante la festa dei suoi settant’anni, si spinge a dire che “chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello, ma chi non lo ricorda è senza cuore”. E allora si capisce che davvero tutto è possibile, che il vento del cambiamento sospinge la sinistra e il Pd verso sentieri che sembravano impolverati e dimenticati per sempre, anche nel linguaggio che recupera l’antico antifascismo buono a combattere gli avversari contemporanei che probabilmente fascisti non sono. Solo che al posto della barba di Marx qualcuno già vede spuntare le occhiaie e la cravatta di Di Maio: ben scavato, vecchia talpa. E non c’è infatti solo Pier Luigi Bersani, che con il suo Mdp è già dentro alle liste elettorali del Pd alle europee, a ripetere, come fa spesso, che “io sono ancora quello dello streaming”. Ci sono sempre Dario Franceschini e Maurizio Martina, già teorici di un governo con Di Maio in questa legislatura. E c’è, al di là delle parole decise, l’ambiguità di fondo (o il cinismo pragmatico?) di Renzi. “Se faremo un accordo con il M5s, lo farò io”, diceva ai suoi amici l’ex segretario del Pd, ad aprile dell’anno scorso, quando si faticava a trovare una maggioranza per un governo in Parlamento. Una leggenda, diffusa in quei giorni, raccontava di incontri segretissimi tra Marco Minniti e Vincenzo Spadafora, il grillino dal volto umano, il futuro sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Renzi aveva persino ipotizzato di utilizzare la direzione del Pd prevista il 3 maggio 2018 per fare un’apertura pubblica, “ma ragionata”, al M5s. Poi la strada gli venne tagliata da Martina, che si lanciò lui nel corteggiamento di Di Maio. Vecchia storia, dunque, la velleità di un abbraccio con il M5s. L’inizio della fine, o il principio di un principio.

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