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La libera circolazione dei lavoratori nell’Ue conviene anche a tanti italiani

Sabrina Ragone

Tutti i cittadini europei hanno il diritto di lavorare in un altro paese dell’Ue alle stesse condizioni che si applicano ai cittadini di quel paese

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Un’occasione persa. L’occasione persa. E’ il 2 marzo 2020 e Sarah, seduta su una panchina dei giardini di Plaza de Oriente a Madrid, guarda il tramonto alle spalle del Palazzo Reale. Ha in mano una busta con un francobollo americano e non riesce a darsi pace. Sarah ha trentaquattro anni, è di Liverpool, da tempo si dedica alla fisica teorica, sperando, un giorno, di contribuire alla costruzione della “teoria del tutto” con i suoi studi su stringhe e supersimmetrie. La sua tesi di laurea ha vinto svariati premi internazionali e quella di dottorato le è valsa citazioni su citazioni. E’ una vera cittadina europea. Ha lavorato in Italia fino al 2015, poi in Francia e in Germania, oltre che nel Regno Unito. Tecnicamente, però, non lo è più. Il Regno Unito ha ormai lasciato l’Ue a seguito della Brexit e la sua posizione di straniera, rispetto agli stati membri dell’Unione, equivale a quella di un qualsiasi cittadino proveniente da paesi extraeuropei. Come tanti della sua età, in fondo, è una cittadina del mondo. Dopo le sue peregrinazioni europee, nel 2019 ha lavorato come ricercatrice ad Harvard. I risultati dei suoi calcoli vengono oggi usati come base da studiosi di tutto il mondo. La ricerca svolta negli Stati Uniti le è servita, pochi mesi fa, anche per vincere un posto da junior group leader presso l’Universidad Autónoma di Madrid. Finalmente, il lavoro dei suoi sogni.

  

Così, a dicembre 2019, mentre era ancora negli Stati Uniti, Sarah ha iniziato a informarsi sulla procedura da seguire per prendere servizio presso l’Universidad Autónoma; procedura da concludersi, come indicato nel bando, improrogabilmente entro il 29 febbraio 2020. Era tranquilla: fino a quel momento, in tutti i suoi spostamenti per l’Europa, non aveva mai incontrato grosse difficoltà, né i tempi erano stati eccessivamente dilatati. Messasi in contatto con l’amministrazione, ha però scoperto che la lista degli adempimenti necessari per stabilire legalmente la propria residenza in Spagna era molto più lunga rispetto ai trasferimenti precedenti, non essendo più cittadina europea. Tra questi, figurava, in particolare, la necessità di presentare l’estratto del casellario giudiziario di tutti i paesi dove aveva vissuto negli ultimi cinque anni. Immediatamente aveva iniziato a raccogliere i moduli necessari e aveva poi richiesto i documenti a Italia, Regno Unito, Francia, Germania e Stati Uniti. Un caso difficile, il suo, e il tempo stringeva. Nonostante le sollecitazioni e le mille telefonate, il certificato dell’Fbi è arrivato con due giorni di ritardo. I termini di ciascuna amministrazione nazionale sono diversi e non tengono certo conto delle specifiche necessità di ogni utente. Sarah tiene la busta nelle sue mani: ormai non le serve più.

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Sarah ripensa agli anni del dottorato e del primo contratto “post-doc” in Italia, a Trieste, all’Ictp (International Centre for Theoretical Physics). Cinque anni: dal 2011 al 2015. Si pente di non aver acquisito la cittadinanza italiana, per cui avrebbe potuto presentare domanda dopo quattro anni di residenza regolare, essendo (all’epoca!) cittadina europea. Ma perché avrebbe dovuto?! Non ci aveva mai pensato prima: fino al 2019 essere cittadina britannica o italiana era praticamente equivalente per il suo lavoro. La cittadinanza europea. Si ricorda di quando a scuola, nel corso di educazione civica, avevano parlato del Trattato di Maastricht, della trasformazione delle Comunità europee in Unione e del principio secondo cui essere cittadini di uno Stato membro comportava anche l’acquisizione della cittadinanza europea.

  

Ci pensa adesso. Visualizza la graduatoria per il posto presso l’Universidad Autónoma e dentro di sé ripete il nome del secondo classificato, al quale, ormai, sarà già stato comunicato che diventa il vincitore: Marco Tassoni. Lui è italiano, quindi cittadino europeo, e gli basterà qualche settimana per adempiere a tutti gli obblighi necessari. Dovrà prendere la residenza a Madrid comunicandola all’anagrafe, farsi dare codice fiscale e numero di previdenza sociale. Senz’altro ci vorrà meno dei due mesi stabiliti come termine ultimo per la presa di servizio. Marco diventerà così un altro dei tanti giovani che negli ultimi anni, per scelta o per necessità, lasciano l’Italia. Gli italiani che stabiliscono la loro residenza all’estero per più di dodici mesi sono tenuti a iscriversi all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (A.I.R.E.) e proprio i dati relativi all’A.I.R.E. permettono di realizzare una mappatura del fenomeno migratorio dei cittadini in uscita dall’Italia. Nel 2006, gli iscritti erano poco più di tre milioni; nel 2018, più di cinque milioni. Alla luce dei dati A.I.R.E. di inizio 2018, più della metà di questi cittadini italiani vive in Europa. Scorporando i dati di nascite e acquisizioni della cittadinanza, nel 2017 circa 128 mila italiani sono espatriati e nel 2018 circa 123 mila. La fascia d’età a cui appartengono è prevalentemente quella di maggior potenziale lavorativo: tra i 18 e i 49 anni. E dove si spostano? Soprattutto in Germania, Regno Unito e Francia. Contrariamente a quanto si possa immaginare, moltissimi lasciano le Regioni del nord, partendo da Lombardia, Veneto e anche dall’Emilia-Romagna, oltre che dalla Sicilia. E non si tratta solo di giovani e lavoratori: in termini percentuali, si riscontrano aumenti sostanziali per gli over 65, che tendenzialmente migrano, ormai in pensione, verso climi più miti o località più amene. Non è un caso che tra le prime destinazioni si trovino stati membri dell’Unione europea, nei quali gli italiani, in quanto cittadini europei, godono di una serie di vantaggi. Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’art. 20 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) disciplina la cittadinanza europea e stabilisce i diritti e doveri dei cittadini europei. In particolare, essi hanno il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, oltre ad altri diritti come l’elettorato attivo e passivo alle elezioni per il Parlamento europeo nel Comune dove risiedono, nonché la partecipazione alle elezioni comunali. Nel rispetto di determinati requisiti (ridotti rispetto ai cittadini non europei), se regolarmente residenti, hanno diritto all’assistenza sanitaria. In ambito lavorativo, particolare rilievo assume il principio di non discriminazione, sancito anche in termini più estesi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. L’art. 45 del Tfue stabilisce la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, con conseguente abolizione di “qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro”. I cittadini europei hanno il diritto di rispondere a offerte di lavoro effettive, di spostarsi liberamente e prendere dimora nel territorio di un altro stato membro per svolgere un’attività lavorativa, nel rispetto delle stesse norme in vigore per i lavoratori nazionali. Gli stati possono stabilire delle limitazioni solamente per ragioni di “ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica”. L’eccezione a questa regola è rappresentata dal pubblico impiego, ma la Corte di giustizia l’ha interpretata restrittivamente, considerando legittima la riserva ai soli cittadini dello stato membro per quelle posizioni che comportano un esercizio diretto, specifico e prevalente di pubblici poteri, particolarmente legati alla tutela dell’interesse nazionale. Con questa interpretazione, la Corte ha fortemente ridotto la possibilità degli stati membri di creare amministrazioni formate solamente da propri cittadini.

 

Tutti i cittadini europei, insomma, hanno il diritto di lavorare in un altro paese dell’Ue alle stesse condizioni che si applicano ai cittadini di quel paese, senza dover ottenere un permesso di lavoro. Non possono essere soggetti a restrizioni quantitative o condizioni discriminatorie. Una volta entrati nel mercato del lavoro, i cittadini europei hanno diritto agli stessi benefici di carattere sociale e fiscale rispetto ai lavoratori nazionali, tra cui detrazioni fiscali, sussidi di disoccupazione, assegni familiari, etc. Vale la pena di ricordare che questo quadro normativo favorisce tantissimi italiani che ogni anno si trasferiscono in altri paesi Ue. Grazie a queste norme, Marco potrà portare avanti le sue ricerche in Spagna. Intanto il sole è tramontato alle spalle del Palazzo Reale. Sarah si alza e pensa ai suoi nonni, con cui tante volte ha discusso a inizio 2016 per convincerli a votare di restare nell’Ue al referendum sulla Brexit, spiegando loro perché nationality matters. Ora, forse, capiranno.

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