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Il gran subbuglio a cinque stelle sul decreto sicurezza

Valerio Valentini

“Chi non vota la fiducia è fuori”, ci dice Patuanelli (M5s). “Di Maio vuole solo mercenari”, replica il ribelle Mantero

Roma. Dacché, evidentemente, non vuole essere da meno del suo accusatore, Matteo Mantero non disdegna il dibattito storico che, in seno al Movimento, si è aperto intorno alla “testuggine”. “Raccolgo la metafora”, dice il senatore savonese. “E dico però a Luigi Di Maio che, se gli piace davvero la storia antica, dovrebbe ricordarsi che l’impero romano è entrato in crisi non perché ci fossero dei disertori, ma perché nell’esercito erano stati assunti dei mercenari. Se ha deciso di servirsene per rinforzare le sue truppe, non conti su di me”. Parla con una serenità impensabile, Mantero: di chi attende senza troppa ansia che si compia la sua sorte. Di certo più sprezzanti sono le parole del suo collega Gianluigi Paragone, che al solo sentirsi nominare la grana dei dissidenti, sbuffa d’insofferenza: “C’è chi vuole semplicemente piantare delle bandierine personali: non si può assecondare questo atteggiamento”. Ce l’ha con Mantero, certo, e anche con Elena fattori, e anche con Gregorio De Falco e con Paola Nugnes e con Virginia La Mura: i cinque senatori che si oppongono al decreto sicurezza, che arriverà nell’Aula di Palazzo Madama lunedì prossimo. “Credo sia giusto dare un segnale chiaro, tirare dritti”. Anche con la fiducia? “Anche con la fiducia”, dice Paragone.

 

A pochi metri da lui, il suo capogruppo Stefano Patuanelli allarga le braccia, come rassegnato all’ineluttabilità di certe dinamiche politiche: “Dura lex sed lex”, dice. E aggiunge: “Se si metterà la fiducia e i cinque dissidenti non la voteranno, vorrà dire che si saranno messi fuori dal Movimento da soli, perché diventerà evidente che non credono più in questo governo”. Ma la fiducia, per adesso, è un’ipotesi. “A noi interessa solo portare a casa il provvedimento”, sorride Massimiliano Romeo mentre mastica un pasticcino alla buvette. “Rispettiamo il dibattito interno ai nostri alleati”, prosegue il presidente dei senatori leghisti con l’aria di chi cerca la concordia. “Spero che alla fine i figlioli prodighi tornino a casa”, aggiunge.

 

Ma loro, i ribelli, di cedere non hanno alcuna voglia. E anzi, tanto per rasserenare il clima, Mantero decide di depositare una proposta di legge a favore dell’eutanasia. Non esattamente un modo per favorire la distensione con la Lega. “Non importa. Era doveroso dare seguito allo stimolo arrivato dalla Consulta dopo il caso di Dj Fabo”, spiega. Poi aggiunge: “E’ inaccettabile questo ricatto morale per cui se non si vota un decreto si sta automaticamente facendo il tifo per il ritorno del Pd e di Forza Italia al governo. Non è proprio di un leader politico che ha a cuore i valori del proprio movimento arrivare con un testo scritto da un altro partito e dire ai propri parlamentari: o così o niente, o sei dentro o sei fuori”. Paragone però non ci sta, dice invece che “la sintesi tra le diverse sensibilità delle due forze sta già nel contratto di governo, di cui anche questo decreto sicurezza è emanazione”. E insomma sì, “meglio la fiducia”. “Deciderà Salvini se metterla o no”, confessano i leghisti. “No”, s’impunta Patuanelli. “La scelta spetta al ministro per i Rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro”. E di certo i numeri conteranno, nella maturazione di questa scelta. Patuanelli fa di conto, mostrando una consuetudine con le cifre che tradisce l’angoscia di questi giorni: “La fiducia al governo fu votata da 171 senatori. Lega e M5s, da soli, arrivano a 167. Se venissero meno i cinque nostri, si andrebbe a un solo voto di margine sulla maggioranza assoluta”. Prova a sfoggiare sicurezza: “Comunque le opposizioni non vanno oltre 151”. Ma il ricordo del Prodi II, quel governo appeso alla presenza dei senatori a vita, deve avercelo bene in mente. E infatti appena glielo si evoca, subito si schermisce: “Vabbè, ma il raffreddore può venire anche a quelli della minoranza, mica per forza solo ai nostri”.

 

Ci sarebbe, a quel punto, da coinvolgere magari Fratelli d’Italia, ma farlo significherebbe inasprire ancora di più, ed espanderla, la rabbia di quella parte del M5s che denuncia la torsione destrorsa del governo. “Se i senatori di Giorgia Meloni volessero votare la fiducia, non potremmo certo impedirglielo. Ma il loro ingresso in maggioranza non è nei nostri piani”, ragiona Patuanelli. Senza contare che gli stessi meloniani, con cui peraltro il capitano De Falco continua ad avere discreti rapporti (“Ce li ha sempre avuti”, dicono in FdI), al momento non danno per scontato un loro soccorso alla maggioranza traballante. “Ci ignorano per mesi, non accolgono un nostro emendamento né sul decreto dignità né sulla manovra, e poi pretendono che gli diamo una mano? No, a scatola chiusa non si compra nulla”, dice il deputato Walter Rizzetto, che in FdI è arrivato dopo essere stato espulso dal M5s. “Ai grillini dissidenti che si sentono ricattati dal capo do un caldo benvenuto nel club dei reietti”.

  

Ma non è di eventuali sanzioni che i dissidenti hanno paura. “Se dovessi accorgermi di non essere più utile alla causa, mi farò da parte”, dice Mantero. “Di certo, però, non starò a guardare in silenzio che i nostri valori vengano stravolti”. E a immaginarselo così, in un manipolo di dissenzienti consci, essi solo, della tragedia in arrivo, sembra quasi rassomigliare al protagonista del suo recente libro. “E’ un romanzo distopico”, spiega. “Racconta di un’eclissi catastrofica e di tre persone che sono le uniche a vederla, mentre il presidente della nazione descrive una ripresa economica che non c’è e ripete il suo ritornello: produci, consuma, sorridi”. Al che banalizzare non si vorrebbe, ma le analogie s’impongono quasi inevitabili. Se non fosse che l’autore dissuade dal tentare di vedere i Mantero e le Fattori nei ribelli del suo libro, e Di Maio nel presidente fanfarone. “L’ho scritto tre anni fa, anche se è uscito solo ora”.

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