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Le cattive abitudini della “democrazia illimitata” e le illusioni gialloverdi

Lorenzo Infantino

Monito ai governanti e ai governati sulle innovazioni “a debito”

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Non è facile porre in ordine d’importanza tutti gli eventi che, cumulandosi, hanno prodotto la situazione economica e politica con cui dobbiamo oggi fare i conti. Ma possiamo individuare sinteticamente nella “democrazia illimitata” la causa primaria dei problemi che pesano sulla vita di tutti noi. E’ una situazione in cui si è persa l’idea della limitazione del potere e ogni governo, pur di rimanere in carica, è disposto a soddisfare ogni tipo di richiesta che venga formulata. Il che non è un fenomeno nuovo nella storia. Già Aristotele temeva che, con i decreti e gli editti, si giungesse a svellere il “governo della legge”, perché coloro che ricevono favori ne chiedono sempre di più: e non si può riempire un vaso senza fondo.

La “democrazia illimitata” ha potuto a sua volta prosperare sull’idea che il debito potesse cancellare le più elementari regole economiche. Si è qui dimenticato, o si è voluto dimenticare, che indefettibile condizione umana è la scarsità. Come dire la “fine dell’economia” e la “beatitudine economica” non sono possibili. E quanti agiscono in spregio al postulato economico devono essere pronti ad accettarne le conseguenze o a scaricarle sulle spalle delle generazioni successive. Si pensi che il debito pubblico italiano è esploso negli anni Ottanta. Da allora, sebbene qualcuno abbia di tanto in tanto manifestato una qualche buona intenzione, il problema non è stato mai seriamente posto all’ordine del giorno. Non si è tratto vantaggio dalle condizioni favorevoli create dall’introduzione dell’euro. Sono stati fatti fallire tutti i tentativi di “spending review”. Si è addirittura giunti a un pesante aggravamento della situazione debitoria. E in questo modo sono state sottratte risorse al meccanismo produttivo, con la conseguenza che non abbiamo avuto la crescita della produttività e la creazione di nuovi posti di lavoro. Abbiamo dovuto invece subire la caduta della prima e il restringimento della base occupazionale.

Proseguire con le vecchie politiche significa non avere appreso nulla dai propri errori. La situazione delle regioni meridionali che, dopo decenni di operatività della Cassa per il Mezzogiorno e degli enti successivi, si trovano a invocare ancora aiuto dovrebbe insegnarci molto. Dovrebbe insegnarlo ai governanti e ai governati. I primi si ostinano furbescamente a vivere alla giornata e non prendere mai in considerazione gli esiti di medio e lungo termine. I secondi sembra che abbiano piacere a rinunciare a ogni capacità critica. In una delle prime pagine de “La montagna incantata”, Joachim dice al cugino Castorp: “Prima ti devi assuefare al clima, che non è tanto facile, vedrai. Il clima poi non è la sola cosa singolare qui da noi. Qui, stai attento, vedrai parecchie novità […]. Qui manipolano il tempo altrui come non puoi immaginare. Per loro, tre settimane sono un giorno. Vedrai, tutte cose che avrai modo di imparare […]. Qui si mutano i propri concetti”.

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Ecco: nel mondo piccolo e chiuso del sanatorio di Davos, gli ospiti erano spinti dal contesto a osservare le cose mediante una lente deformante. Cambiava anche la loro cognizione del tempo. E anche noi siamo prigionieri della “montagna incantata”, di una cultura che, come aveva ben visto Alexis de Tocqueville, ci suggerisce che possiamo sottrarci al “fastidio di pensare” e alla “fatica di vivere”. Tuttavia, se solo ci scrolliamo di dosso un poco della nostra pigrizia mentale, comprendiamo che c’è una precisa diagnosi e che non siamo di fronte alla “notte delle vacche tutte nere”. La responsabilità del nostro declino è proprio di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno pensato di poter risolvere i problemi con la dissipazione delle risorse e che, come sempre mostra la monotona storia dell’interventismo politico nell’economia, hanno conseguito il solo risultato di rendere più gravi i vecchi problemi e di crearne di nuovi. Non è stato il tanto vituperato “liberismo” a condurci nella situazione odierna. Il liberalismo non è nato in Italia. Ed è rimasto estraneo alla nostra cultura. Se osserviamo gli eventi che si sono svolti dall’immediato secondo Dopoguerra fino ai nostri giorni, gli autentici liberali impegnati in politica costituiscono solamente delle individualità isolate.

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Non c’è quindi spazio per le illusioni di quanti ritengono che l’alleanza gialloverde ci dia la possibilità di fare dell’Italia un “laboratorio di innovazioni”. La scelta privilegia ancora l’allocazione politica delle risorse. Il che è esattamente ciò che ostacola, e spesso impedisce, il processo di esplorazione dell’ignoto che è reso possibile dal mercato. Forse siamo in pochi a esserne consapevoli. Ma molti altri saranno indotti a convincersene, non appena avranno intravisto il peggio che si trova dietro l’angolo o se solo vorranno volgere lo sguardo verso quanto succede nel Sud del continente americano.

Lorenzo Infantino

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