16 marzo 1978, via Fani, a Roma, dopo l'attacco delle Brigate Rosse ad Aldo Moro e la sua scorta

Moro, il fallimento della Grosse Koalition all'italiana e l'inizio della fine del terrorismo

Redazione

Sono passati 40 anni dal rapimento dello statista democristiano, che voleva condurre il paese verso il bipolarismo, rispettando le alleanze occidentali

A quarant’anni dal rapimento di Aldo Moro e dall’eccidio della sua scorta, preludio all’assassinio del presidente della Democrazia cristiana, 55 giorni dopo, è ancora difficile elaborare una visione storicamente compiuta di quella vicenda che segnò indelebilmente la vita della democrazia italiana. Nelle versioni giornalistiche ancora si fatica a rintracciare una lettura convincente dei due fenomeni – i governi di compromesso storico e l’apice dell’offensiva terroristica – che caratterizzarono quella fase cruciale. L’assassinio di Moro condusse al fallimento dell’idea di una maggioranza stabile con il Partito comunista e avviò al contempo la lenta ma inesorabile reazione dello stato che portò all’eliminazione del terrorismo rosso.

 

Oggi Moro viene per lo più descritto come il tessitore di una prospettiva di alleanza tra Dc e Pci, ma in realtà il suo disegno era quello – di fronte a un esito elettorale con due vincitori, ambedue però privi della possibilità di agglutinare una maggioranza autosufficiente – di promuovere una transizione che permettesse di arrivare a un confronto bipolare in condizioni di sicurezza per la democrazia interna e per il sistema di alleanze occidentali. Si trascura spesso il contesto internazionale, segnato dalla diffidenza, espressa da un esplicito altolà pronunciato dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt nei confronti di quel disegno, audace e comunque non politicamente infondato. Chi ne tiene conto, peraltro, inclina a teorie complottistiche che descrivono la Brigate rosse come mandatarie di non meglio identificati interessi stranieri.

 

In realtà una delle ragioni che spinsero la Dc ad accettare la lettura morotea del compromesso era la convinzione che l’associazione del Pci alla maggioranza avrebbe ridotto le potenzialità del terrorismo: l’assassinio di Moro fu la dimostrazione di quanto errato fosse questo calcolo e spinse, nel giro di un anno e mezzo ad abbandonare quella politica.

 

Vista in una prospettiva più ampia, la vicenda della “Grosse Koalition” all’italiana si dimostrò un generoso fallimento. Da lì in poi i due protagonisti, la Dc e il Pci, vivono processi degenerativi: la prima costretta a cedere la guida del governo prima a Giovanni Spadolini e poi a Bettino Craxi, il secondo a una ritirata nel ridotto moralistico dell’isolamento politico. Fu l’aggressione terroristica, la pressione internazionale o una debolezza intrinseca a provocare quel fallimento? A questa domanda è difficile rispondere, ma probabilmente uno degli elementi decisivi fu il carattere statico e paralizzante del compromesso a condannarlo. Mentre la società e l’economia cercavano nuove strade, dalle telecomunicazioni private ai fondi di investimento alle agenzie di collocamento non pubbliche, il compromesso era basato su una difesa a oltranza dei monopoli pubblici ormai obsoleti. Il suo obiettivo era stringere la società e l’economia in vincoli ancora più stretti, come dimostra l’unica riforma rilevante di quella fase, l’equo canone. Con Moro si avvia alla conclusione una fase che era stata caratterizzata dall’onnipotenza dei partiti, che aveva creato le strutture di intervento pubblico nell’economia, dalla proprietà statale delle grandi banche e dal ruolo invasivo delle partecipazioni statali (ereditate dal fascismo), alle illusioni di programmazione dello sviluppo del meridione affidate alla Cassa del Mezzogiorno. Quei giorni tragici non segnarono l’avvio di una nuova fase della Repubblica, ma la fine, o almeno l’inizio della fine, di quella precedente.

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