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Perché in fondo quasi tutti hanno vinto la loro campagna elettorale

Di Maio è riuscito a far passare il M5s per normalizzato, il Cav. rassicura. Pd underdog, Salvini non sfonda

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Chi abbia vinto le elezioni non lo sappiamo, si presume che lo sapremo ‪lunedì mattina ma non c’è da esserne neanche tanto sicuri. In compenso a questo punto possiamo individuare, con buona certezza, chi ha vinto la campagna elettorale, cioè chi è riuscito almeno a conseguire i risultati politici e comunicativi che si era proposto al momento del via. Ovvero chi, a partire dai propri problemi di partenza, può dirsi almeno soddisfatto di come li ha affrontati (in attesa di vedere se l’opinione degli elettori corrisponderà).

  

I sondaggi com’è noto non sono né pubblicabili né riferibili, anche se vengono regolarmente svolti e fatti circolare, però l’impressione degli istituti è che la partecipazione al voto potrebbe essere più o meno in linea con quella delle ultime scadenze nazionali e sensibilmente più alta di tutte le recenti (disastrose) scadenze amministrative. E questo nonostante il luogo comune più diffuso (sulla impareggiabile bruttezza della campagna elettorale) e nonostante la valutazione politologica più accreditata (sulla sostanziale inutilità delle elezioni ai fini di trovare una guida per il paese).

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Allora si può intanto dire che, almeno in questo, la campagna elettorale l’hanno vinta un po’ tutti: sono riusciti a far pensare agli italiani che la retorica “ogni voto conta” abbia un fondamento reale. La drammatizzazione incrociata pare aver sortito l’effetto desiderato: gli italiani torneranno a votare perché in effetti pensano di dover fermare qualche pericolo o di dover cacciare qualcuno dalla scena, e poi in parte (alcuni ottimisti) anche perché credono di eleggere chi governerà l’Italia. Ecco, questi ultimi rimarranno probabilmente delusi, ed è facile che tra di loro ci saranno molti dei più entusiasti elettori di Di Maio. Invece nell’attivazione del voto “contro” i partiti sono stati tutti efficaci: chi vota “contro” lunedì avrà le sue soddisfazioni. Perfino i perdenti: il possibile stallo del prossimo Parlamento darà a chiunque almeno il gusto di vedere gli avversari impantanati.

 

Il che non vuol dire che i partiti siano riusciti a smentire un’altra fortissima convinzione degli elettori, potentemente confermata fin dalle prime settimane di campagna: la assoluta inverosimiglianza delle proposte e delle promesse dei candidati. Qui bisogna dire che i partiti e i leader non si sono neanche sforzati: giustamente convinti che coloro che votano sulla base dei programmi siano una sparuta minoranza di eccentrici, dopo aver sparato le idee presumibilmente più consone ai target di riferimento, le hanno tenute lì solo per qualche citazione doverosa. Zero campagne mirate sui “temi”. Tanto nessuno si aspetta che le promesse vengano davvero mantenute, per di più da partiti che – tutti sanno – non avranno il controllo pieno né del governo né del Parlamento.

 

Poi però ognuno aveva qualche importante messaggio su di sé da far passare, e su questo si sono concentrati.

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Cominciamo dai Cinque stelle. Di loro si può pensare il peggio, ma è giusto riconoscere a Luigi Di Maio di aver perseguito con grande disciplina personale e di gruppo il proprio obiettivo di comunicazione. Si tratterà di una colossale mistificazione, ma nel caso è ben riuscita: il M5s di oggi si presenta agli elettori come un oggetto completamente diverso rispetto a quello del 2013. Almeno nella confezione, la normalizzazione stile Di Maio è stata totale. Un’operazione di rassicurazione su ogni fronte – dalla finanza mondiale alle casalinghe del mercato, passando dal Quirinale – che ha cancellato tutti gli slogan e perfino le biografie della fase eversiva, genuina e propriamente “grillina”, del movimento. Da apriscatole e ariete antisistema, a muro di gomma: chiaro, dichiarato, l’intento di smontare in anticipo le campagne di drammatizzazione degli avversari. Non siamo barbari alle porte. Nessuno ha stonato, tra le migliaia di candidati, per il semplice fatto che nessun altro ha cantato. Il Foglio si è giustamente impegnato per svegliare le coscienze delle élite sul pericolo Casaleggio, sulla opacità e sostanziale incostituzionalità del Movimento. Ma non è stata una campagna giornalistica facile, perché quegli aspetti sono finiti sotto il tappeto di casa Di Maio esattamente come i No Vax, i No Tav e i No Euro, come il simbolo stesso a cinque stelle, fino all’apoteosi della normalità e banalità spiazzante della squadra di “ministri”: difficile, per Renzi e Berlusconi, dipingere come pericoloso quel gruppetto di innocui, illusi e appena un po’ ambiziosi professori. Come dilettanti allo sbaraglio ovviamente sì, ma da Raggi in poi s’è capito che il dilettantismo (come gli scandali e gli scandaletti sui rimborsi) limita la capacità di espansione del movimento ma non ne intacca il consistente zoccolo duro. Nessuno si senta offeso, ma gli attacchi portati in questi mesi al M5s hanno ricordato a tratti quelli che la sinistra lanciava nei primi tempi contro Forza Italia. Anche nella sostanziale inefficacia: troppo drammatici per suonare veri.

 

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Dell’abilità di Berlusconi in campagna elettorale non è più neppure il caso di parlare, va sottintesa. Stavolta perfino più nella sottigliezza politica, che nella comunicazione pura. Non dev’essere stato facile, mantenere per mesi l’equivoco palese della coalizione con Salvini sotto il fuoco della propaganda altrui e dell’insofferenza del leghista. Eppure, lavorando sistematicamente per sottrazione invece che per enfasi, il Cav. c’è riuscito: anche qui, la mutazione rispetto al passato è fortissima. Il paradosso è che l’uomo che fu l’emblema della rottura del sistema costituito è riuscito a cavalcare l’onda della rassicurazione, della nostalgia, in un certo senso della restaurazione moderata, in parallelo col medesimo fenomeno sfruttato a sinistra da Paolo Gentiloni.

 

Come raccomandano gli esperti, il messaggio elettorale del Pd è stato perfettamente coerente con il posizionamento reale del partito. Peccato che, in questo 2018, il posizionamento sia quello dell’underdog, lo sconfitto predestinato, figura che Matteo Renzi ha saputo incarnare e sfruttare bene solo nelle sue prime primarie, a Firenze nel 2004 e contro Bersani nel 2012. Per lui la campagna elettorale è stata tutta un remare contro corrente, e contro se stesso: per ritrovare sintonia con la propria gente ha dovuto ammettere “gravi errori” che chissà se considera veramente tali; ha dovuto cancellare il tema bancario dopo averlo usato come una clava per mesi, fino ad arrivare su questo al punto di rottura con Gentiloni; ha dovuto drasticamente ridimensionare gli obiettivi, basti pensare che appena un anno fa di questi tempi si ragionava su quel 40 per cento referendario trasferibile in consensi quasi personali; soprattutto, Renzi ha dovuto ricorrere alla retorica del “lavoro di squadra”, concetto che nessuno assocerebbe immediatamente a lui, chiedendo ai ministri del Pd un’esposizione che avrà un suo prezzo da ‪lunedì prossimo.

 

Certo, sarà da vedere chi dovrà pagarlo questo prezzo. Renzi stesso? Oppure proprio la famosa “squadra”, che essendosi appunto esposta potrebbe essere chiamata a condividere le responsabilità di un’eventuale delusione? E’ un interrogativo che come è ovvio riguarda soprattutto Gentiloni: la sua personale campagna ha coinciso con un clamoroso picco di consenso e simpatia personali, ma è fatalmente slittata dal ruolo autorevole e quasi super partes che il premier (e Mattarella) sembrava preferire due mesi fa, fino ai comizi accalorati delle ultime ore. Scivolamento inevitabile, giusto. Vedremo se e come tanta lealtà al partito verrà ripagata, oppure fatta pesare nel dibattito interno post-elettorale.

 

Le storie degli altri offrono spunti interessanti.

 

Quello della lista +Europa potrà essere studiata in futuro come un caso clamoroso di campagna elettorale preterintenzionale. Nata a fatica, grazie a un escamotage sulle firme da raccogliere, solo per dare rappresentanza a una frangia del ceto politico radicale e nell’idea di recuperare qualcosa del disperso 7 per cento di Monti nel 2013, la lista Bonino è cresciuta nei sondaggi e nell’attenzione mediatica per un ruolo quasi inconsapevole di “voto Pd non renziano”, e per una disponibilità di risorse economiche che nell’ultima settimana le ha consentito (nelle stazioni ferroviarie, sui giornali) di surclassare in visibilità anche i grandi partiti. Sicché alla fine Bonino avrà svolto la funzione di recupero di voto dem perfino più efficacemente di coloro che si erano prefissi questo recupero come missione fondativa, però a sinistra e in rottura con il Pd.

 

Liberi e uguali, prima ancora di vedere i numeri, è una sicura perdente della campagna elettorale: nessuna centralità, messaggio povero, totalmente fallita la chance di offrire un canale di rientro agli elettori di sinistra che nel tempo si sono spostati sul M5s. Ai quali, essendo loro chiaramente desiderosi di innovazione e discontinuità, è stato incredibilmente offerto un mix tra Grasso, Bersani e D’Alema. Gli unici passaggi efficaci sullo specifico target elettorale li ha offerti, a modo suo, Laura Boldrini, che infatti ha condotto una campagna totalmente personale, distinta e spesso contrastante con quella del capofila Grasso.

 

Matteo Salvini non ha sfondato “à la Le Pen”, come sperava. Porterà la Lega al suo massimo storico, ma paradossalmente potrebbe finire per contare meno di quanto contasse Bossi ai suoi tempi, sempre sotto al 10 per cento o addirittura al 5. Il messaggio da pura estrema destra europea è apparso troppo contraddetto dall’ingabbiamento col Berlusconi più moderato e rassicurante di sempre, ed è risultato troppo penalizzante il non poter indicare un credibile sviluppo di governo. Inoltre, similmente all’altro Matteo, gli elettori intuiscono che dietro la corsa del leader si annida una fronda interna che vorrà macchiarne il risultato. Intendiamoci, Salvini non è affatto una meteora nella politica italiana, è destinato a durare e a farsi sentire. Ma per farlo dovrà completare il percorso di fuoriuscita dalla storia della Lega Nord, di fusione con i post-missini e di trasformazione definitiva in Front National. Se vorrà, se saprà pagarne l’inevitabile prezzo.

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