Il tramonto del vaffa che fu, rivoluzione lessicale a 5 stelle. Ma la base?
Roma. “La descrizione di un attimo”, diceva la canzone dei Tiromancino, ed è dalla sera della presa del potere romano e torinese che, con parole diverse, i Cinque stelle e i non Cinque stelle provano a descriverlo, l’attimo da cui non si può tornare indietro: o vai di qua (consolidamento e istituzionalizzazione) o vai di là (inseguimento della pancia del web e movimentismo a oltranza, anche a costo dell’inconcludenza). Non si torna indietro nei fatti e neanche nel lessico: se fino a qui la memoria delle scatole di tonno, dei redditometri, dei giorni del giudizio, degli zombie, delle scie chimiche e dei Bilderberg poteva convivere, nei discorsi e nei post a cinque stelle, con i toni assennati (addomesticati?) di Luigi Di Maio, adesso che è “svolta epocale” (copyright Beppe Grillo), l’intendenza deve conformarsi al tramonto del vaffa che fu.
Primo problema: come far combaciare immagine e sostanza, un’immagine che si vorrebbe ancora rivoluzionaria e una sostanza che si vorrebbe far già percepire al cittadino come non minacciosa e vagamente ecumenica. Ed è nell’anticamera della “svolta epocale” che si annida la metamorfosi dell’eloquio. Imbattersi in un discorso a cinque stelle la sera della vittoria, a Torino come a Roma, infatti, voleva dire imbattersi in un’uniformità quasi millimetrica di adeguamento lessicale all’abito “alternativa di governo”, e in espressioni di edulcorata combattività di parlamentari e neo sindaci, peraltro diversissimi tra loro (come il neo sindaco di Torino Chiara Appendino, il neo sindaco di Roma Virginia Raggi e il deputato e membro del Direttorio Alessandro Di Battista). Ed era tutto un pensare a come “ricucire” i tessuti sociali delle città prese in carico, a come salvaguardare i “bene comuni” (che tanto piacciono anche alle sinistre di area “Rodotà-tà-tà” e di credo antirenziano); tutto un dire e dirsi, alla maniera del nonno di famiglia, che “chi semina raccoglie” e chi raccoglie ora inizia “a lavorare”. Di più: chi lavora è “pronto” a “governare” anche in nome “degli altri”, quelli che i Cinque stelle non li hanno votati. E pazienza se all’uniformità di lessico non corrispondeva l’uniformità di toni (c’era infatti un mondo tra il “tutti noi siamo Torino” di Chiara Appendino, detto con cortesia sabauda e onore delle armi all’ex sindaco e avversario Piero Fassino, e il più ombroso “sarò il sindaco di tutti” di Virginia Raggi, detto con accenno non proprio distensivo al voler “mettere un punto” alle polemiche della vigilia). E quando un Di Battista serafico si affacciava dagli schermi de La7 per promettere che il M5s mai avrebbe “tradito la fiducia” accordata dall’elettorato e per parlare dell’“umiltà” necessaria al compito (umiltà finora poco praticata nel frasario politico a cinque stelle), la descrizione dell’attimo virava verso la sanzione ufficiale del cambio di marcia.