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Non solo immigrazione

Dal debito alle banche, tutte le idee non pol.corr. che agitano Merkel e Renzi

Marco Valerio Lo Prete
Sulle frontiere uniti, ma sugli Eurobond per l’Africa no. Distanti su rigore e Weidmann. Uno studio che fa da ponte. L’ipotesi hard: ristrutturazione.
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Roma. “Italia-Germania c’è soltanto ai Mondiali di calcio. Se l’economia italiana va meglio, questo funziona anche per la Germania e viceversa”. Lo ha detto ieri Matteo Renzi, durante la conferenza stampa che ha fatto seguito alla colazione di lavoro con Angela Merkel. D’altronde il Migration compact proposto dall’Italia piace a entrambi i leader (anche se non c’è intesa su come finanziarlo, Eurobond o altro); entrambi sono d’accordo sulle riforme istituzionali che favoriscono decisioni rapide (anche se Renzi, per una questione d’immagine, probabilmente non correrà ad arruolare Merkel nei comitati per il “sì” in vista del referendum di ottobre); entrambi ritengono che l’Italia debba ridurre il suo debito pubblico monstre (anche se la velocità di questa riduzione li divide). Tuttavia i vertici bilaterali, come noto, servono proprio a tenere tra parentesi alcuni argomenti più spinosi.

 

Piccola eccezione: il caso Jens Weidmann, il banchiere centrale tedesco che la scorsa settimana, intervenendo all’ambasciata a Roma, non aveva nemmeno tentato di smussare il proprio scetticismo sulla politica europea del governo Renzi e sulla situazione delle banche del nostro paese. Merkel ha ribadito l’indipendenza della Bundesbank e non è entrata nel merito delle frasi del suo ex consigliere. Il presidente del Consiglio italiano ha chiosato: “E’ finita l’epoca in cui le dichiarazioni che venivano dall’esterno creavano turbolenze nel nostro paese. Tutt’al più, creano concitazione fra gli addetti ai lavori”. Sarà. Intanto però, poco prima, il governatore della Banca d’Italia era intervenuto pubblicamente per respingere altre critiche espresse in lingua tedesca. Ignazio Visco ha definito “politicamente molto scorretto” il modo in cui Elke König, presidente del Consiglio unico di risoluzione che è partner della Commissione europea e della Banca centrale europea per l’Unione bancaria, si era pronunciata sugli interventi a sostegno delle banche italiane.

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Nessuna turbolenza, assicura Palazzo Chigi. Fatto sta che di nuovo, ieri, dalla Banca centrale europea è arrivato un avvertimento sul debito pubblico. “Molti paesi dell’Eurozona non hanno sfruttato la congiuntura economica favorevole antecedente la crisi per costituire margini di bilancio a fronte di futuri casi di rallentamento economico”. E ancora: “E’ comunemente riconosciuto che un forte indebitamento rende i paesi vulnerabili agli choc economici e può ostacolare la crescita in diversi modi”. Con tanto di rimando a uno studio degli economisti Cecchetti, Mohanty e Zampolli, gli stessi citati da Weidmann a Roma. Come incentivare la discesa di un debito tipo quello italiano, arrivato al 133 per cento del pil? Il banchiere centrale tedesco, nel solito intervento della discordia, aveva abbozzato una proposta radicale sul punto: da una parte occorre creare un organismo autonomo per sorvegliare i conti pubblici e che non faccia sconti come purtroppo fa la Commissione; inoltre si può prevedere “la proroga automatica di tre anni della scadenza di tutti i titoli, che scatti non appena un governo presenti la richiesta per gli aiuti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes)”. Una forma automatica, e nemmeno troppo soft, di ristrutturazione del debito pubblico (altrimenti detta: cancellazione del debito), per i paesi che avessero difficoltà di finanziamento sui mercati. Per il momento la Bce rifugge – parafrasando Visco – da idee così politicamente scorrette. La Banca centrale guidata da Mario Draghi consiglia piuttosto una miscela di tagli alla spesa, riforme pro crescita, privatizzazioni e politica monetaria espansiva. Poi però la Bce segnala che in Italia “la correzione strutturale nel 2014 e nel 2015 è stata significativamente inferiore a quella richiesta dalla regola del debito”. Così, anche in alcuni studi che circolano in queste ore a Bruxelles, per esempio quello appena pubblicato dal Centre for Economic Policy Research, si riaffacciano ipotesi di intervento radicale sul debito, come a mediare – anche qui – tra Weidmann e Draghi.

 

 

 

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Rafforzare l’Eurozona e proteggere una società aperta”, si intitola lo studio del think tank Cepr curato fra gli altri da Giancarlo Corsetti (economista a Cambridge), Lars Feld (direttore del Walter Eucken Institute in Germania) e Lucrezia Reichlin (economista italiana, editorialista del Corriere  della Sera e già capo economista della Bce). La ratio del lavoro, dice Corsetti al Foglio, è proprio quella di “concepire e organizzare la transizione” tra la situazione attuale dell’Eurozona e l’assetto di una “unione economica, finanziaria e politica più stretta” disegnata per esempio nel rapporto dei “Cinque presidenti” delle istituzioni comunitarie. Gli economisti concedono almeno due punti alle tesi di Weidmann. Primo: ritengono “centrale” la creazione di un “meccanismo di ristrutturazione del debito pubblico per l’Eurozona”; questa prospettiva, più di tante regole da applicare con minore e maggiore “flessibilità”, spingerebbe i governi sulla strada del risanamento dei conti. In secondo luogo, sono favorevoli a una forma di ponderazione del rischio presente nei titoli di stato in pancia alle banche commerciali, accompagnata dalla creazione di una nuova attività finanziaria che metta insieme debiti di tutti i paesi e quindi eviti squililbri nella domanda dei titoli pubblici dei governi nazionali. Corsetti e colleghi sostengono però, come a “precisare meglio” quanto emerso finora dalle parole di Weidmann, che “gli automatismi sul debito non possono valere da domani”, altrimenti l’effetto di destabilizzazione sui mercati sarebbe del tutto imprevedibile. “Perché il nuovo regime possa funzionare come meccanismo di disciplina, secondo quanto proposto, occorre creare le precondizioni. Proponiamo dunque una soluzione una tantum coordinata per abbassare il debito pubblico in cambio di una modifica istituzionale permanente”. I dettagli sono tecnici e complessi – “fin troppo”, secondo alcuni operatori di mercato sentiti dal Foglio – ma prevedono essenzialmente che un nuovo Fondo di stabilità europeo compri quote di debito pubblico in eccesso dai singoli paesi, a fronte di un impegno dei paesi a destinare per decenni una quantità fissa di risorse fiscali e con la garanzia del reddito da signoraggio della Bce. Questa mutualizzazione temporanea di una parte del debito consentirebbe per esempio a un paese come l’Italia di vedere il suo debito pubblico “nazionale” scendere da subito fino al 102,5 per cento del pil, a fronte di trasferimenti verso il Fondo di stabilità pari allo 0,5 per cento del pil per 50 anni. Per l’Italia, vista l’eccezionalità dello stock debitorio, gli studiosi prevedono ulteriori imposte patrimoniali (sulle seconde case, per esempio). Si tratta di un “quid pro quo”: in cambio del sollievo debitorio odierno, Roma avrebbe un regime europeo di regole fiscali più credibile (leggi: più ferreo), con annessi meccanismi sanzionatori che arrivano fino alla ristrutturazione del nostro debito pubblico.

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