Una foto della cosiddetta marcia dei Quarantamila a Torino

Quei 40 mila che cambiarono l'Italia

Redazione
Così 35 anni fa il realismo dei quadri Fiat sconfisse i sindacati obsoleti. Il corteo era uscito da un’assemblea dei quadri Fiat, tenutasi al Teatro Nuovo, e poi si era ingrossato man mano che procedeva, con la partecipazione spontanea di migliaia di cittadini.

Trentacinque anni fa, il 14 ottobre del 1980, mentre i cancelli della Fiat erano presidiati da picchetti sindacali che da trentacinque giorni bloccavano anche le merci oltre all’ingresso dei lavoratori, un corteo di impiegati e di quadri attraversò la città di Torino, dietro uno striscione senza simboli che diceva: “Vogliamo la trattativa non la morte della Fiat”. Il corteo era uscito da un’assemblea dei quadri Fiat, tenutasi al Teatro Nuovo, e poi si era ingrossato man mano che procedeva, con la partecipazione spontanea di migliaia di cittadini. Si stupirono tutti, compreso Cesare Romiti, amministratore delegato dell’azienda automobilistica, che si aspettava soltanto un appoggio da parte dell’assemblea dei quadri, non dalla città. Il contraccolpo nel sindacato di quella inedita dimostrazione a favore del lavoro – e non contro – fu immediato e condusse alla soluzione della vertenza nel giro di tre giorni, con la trasformazione dei licenziamenti minacciati in cassa integrazione a zero ore: era la richiesta iniziale della Fiat respinta dal sindacato aziendale.

 

Passò alla storia come la marcia dei quarantamila. Quella manifestazione di attaccamento all’azienda, di rifiuto delle prepotenze sindacali, e la rapida ritirata che impose, segnò la fine di un’epoca, quella iniziata con l’autunno caldo del 1969 e che poi si era protratta per tutto il decennio. In molte fabbriche si era destabilizzata la catena di comando, in particolare a Torino si erano anche verificati gravi attentati terroristici, mentre la crisi innestata dall’aumento del petrolio aveva messo in ginocchio l’economia. Anche la stagione politica, che aveva appena concluso la fase del compromesso storico, era gravida di incertezze e contraddizioni. Quando il segretario del Pci Enrico Berlinguer si recò ai cancelli di Mirafiori, durante la durissima vertenza, per riprendere contatto con quei metalmeccanici che con il loro sciopero avevano dato un colpo decisivo al progetto di inserimento del Pci nell’area di governo, si lasciò sfuggire una frase che fu interpretata come l’impegno a sostenere anche forme di lotta estreme, come l’occupazione della fabbrica. Piero Fassino, allora segretario locale del Pci, ha poi ammesso di essere rimasto allibito. Venivano meno le tradizionali fonti di mediazione, lo scontro tra azienda e sindacati (ma anche all’interno dei sindacati che in parte consideravano avventuristica la condotta del consiglio dei delegati della Fiat) sarebbe finito solo con la sconfitta definitiva di uno dei due. La discesa in campo dei colletti bianchi, largamente appoggiati dalla cittadinanza, fece pendere la bilancia dalla parte dell’azienda.

 

[**Video_box_2**]Fu l’inizio del cambiamento di un mondo, dei rapporti tra sindacato, politica e imprenditoria e di un intero quadro sociale. La Fiat, oggi, non è più la “fabbrica italiana auto”, ma un’impresa transnazionale. Iniziò a cambiare soprattutto il ruolo del sindacato sconfitto. Da allora le sue battaglie furono solo difensive. Intanto nasceva un’opzione politica, quella del pentapartito fortemente condizionato da Bettino Craxi, che concludeva la fase di egemonia assoluta del Pci sulla sinistra e della Fiom sul movimento sindacale. Si può dire che la sconfitta del referendum contro il decreto di San Valentino sulla sterilizzazione della scala mobile fu figlia di questa nuova fase, inaugurata dalla marcia dei quarantamila. Non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, che una sconfitta sindacale alla Fiat segnava un cambiamento di fase: fu così anche con l’occupazione del 1920 che concluse il Biennio rosso e aprì la strada al fascismo. Anche oggi, la sconfitta subita dalla Fiom nello scontro con Sergio Marchionne, incompresa all’inizio persino da Confindustria, rende evidente l’esigenza di abbandonare un sistema di relazioni sindacali obsoleto e inefficiente. Anche per questo vale la pena di ricordare dopo 35 anni, ringraziando, la marcia controcorrente dei capi e dei quadri torinesi.

 

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