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piccola posta

I calcoli distruttori dei potenti, la sventura dei soldati e il terrore del terremoto

Adriano Sofri

Tutto si rimpicciolisce quando la guerra sembra un scossa sismica, e la scossa una guerra. Di colpo, i titolari del rumore del conflitto, i giusti e gli ingiusti, sono soverchiati da un rumore centotrenta volte più forte

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Odessa, dal nostro inviato. Di colpo, la guerra d’Ucraina si è rimpicciolita. Tutto si è rimpicciolito. Anche le nostre parole, di tutti. Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, poveruomo, aveva appena detto che “siamo al più alto rischio, da decenni, di una guerra atomica”. Un minuto dopo ha dovuto aggiustare il tiro sulla situazione delle persone e dei luoghi colpiti dal terremoto, che per gran parte di loro era già disperata. La sola prima scossa ha avuto la potenza “di 32 bombe atomiche di Hiroshima” – è la nostra unità di misura, ce la siamo fatta con le nostre mani. Poi è venuto il resto, cento, centotrenta atomiche di Hiroshima… (E tattiche, quante?).

Di colpo, i titolari del rumore della guerra, i giusti e gli ingiusti, sono soverchiati da un rumore trenta, centotrenta volte più forte, come quando gli acrobati del circo, un momento prima del numero più spericolato, mentre i tamburi rullano e il pubblico trattiene il respiro – danno un’occhiata in basso, ed è vuoto, il pubblico è corso via. E’ la legge dello spettacolo. E’ stato saggio e fortunato, Zelensky, a ridurre il suo messaggio sanremese a una letterina (è stato lui, infatti, non i prelati di Curia). Bisogna curare per un po’ che la propria voce non suoni stridula, in tanto pianto e gemiti e urli – e silenzi. Abbiamo centinaia di migliaia di ammazzati e feriti, e lì solo alcune migliaia e decine di migliaia, certo: ma guardate chi, e il modo, e il tempo. Lo stesso confronto delle immagini è impietoso. Ma non bisogna cedere troppo facilmente ai leopardismi, si avverte, all’indifferenza schiacciante della natura. Dopotutto, lo spiazzato Guterres, povero cristo, aveva appena ricordato che di bombe atomiche (come Hiroshima e più) ce ne sono 13 mila, e noi ci stiamo ancora interrogando sul primo ricorso a una atomica tattica – il primo dopo la negletta Nagasaki. E poi la frontiera fra impronta umana e natura è ormai attraversata da passatori e costruttori di grattacieli di cartone sulla faglia e da popoli di topi negli scantinati delle città bombardate: l’antropocene, il coltello fra i denti e il cemento, armato anche lui. E tuttavia il terremoto è ancora capace di assordare e terrorizzare come quella volta a Lisbona – basta sentire che cosa dicono gli scampati alle bombe prima e ora alle scosse. Basta sentire come ci si aggrappa a turno alle une o alle altre: la guerra che sembra un terremoto, il terremoto che sembra una guerra.  

Oggi, ieri, penso gli stessi pensieri che pensano le altre, gli altri, e non vorrei distinguermene di un centimetro, andare controcorrente. Penso che se gli sventurati che fanno i potenti, in qualsiasi punto della terra, si fermassero un minuto a pensare. A pensare. Penso che gli sventurati che fanno i soldati, un minuto dopo la scossa butterebbero via tutte le armi senza nemmeno guardare che cosa succede nell’altra trincea, e correrebbero a casa ad abbracciare, ad abbracciarsi. Penso che se fossero a casa, al caldo, e leggessero la gara dei titoli – come trenta, come cento, come centotrenta bombe atomiche – si vergognerebbero per i potenti e anche per sé. E ora ricominciamo da dove eravamo arrivati, ciascuno al suo posto, i giusti e gli ingiusti, come se niente fosse. Come se quasi niente.

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